
A distanza di poche settimane dal voto referendario britannico, l’analisi delle motivazioni che possono avere indotto la popolazione del Regno Unito a votare per il leave consente di formulare qualche riflessione ulteriore sugli esiti che, a livello globale, detta scelta referendaria può comportare. E’ stato da più parti sottolineato che il popolo UK (soprattutto quello delle periferie) ha abbandonato il tradizionale orientamento pragmatico che avrebbe lasciato supporre una diversa conclusione delle elezioni. Tale cambiamento, rispetto ai comportamenti attesi, va inquadrato nel mutato contesto storico-culturale in cui è stata assunta la decisione da parte di tale popolazione, imponendo di ricercarne le motivazioni tra i crescenti (e sempre più diffusi) malumori nei confronti di una classe politica lontana dalla realtà e dalle esigenze del popolo “sovrano”. Solo a seguito di tale riscontro – i cui esiti invero valgono per l’intera popolazione europea e inevitabilmente devono collegarsi anche a sentimenti di paura, determinati da episodi che potrebbero colpire ciascuno di noi – sono possibili valutazioni più specifiche inerenti le peculiarità che da sempre contraddistinguono l’atteggiamento della popolazione britannica; mi riferisco alla poca empatia (dovuta a ragioni di natura politica ed economica, ma certamente anche sociale e culturale) di quest’ultima per i Paesi del Vecchio Continente, la quale - oltre ad incidere negativamente sul processo di integrazione con gli altri paesi dell’UE - si è tradotta in un’aperta ed incontrovertibile contrarietà alla conservazione di stretti legami con l’UE. Il Regno Unito sembra, infatti, orientato a voler mantenere con l’Unione solo rapporti di scambio e relazioni economico finanziarie, quali si rinvengono nell’adesione al mercato comune. In questo ordine logico, da più parti è stata sottolineata la possibilità/volontà di dar corso ad accordi analoghi a quelli attualmente esistenti tra la Norvegia e gli altri Paesi non appartenenti all’Unione europea ma aderenti all’accordo sullo «Spazio Economico Europeo»; accordi con cui si garantiscono pari diritti e doveri in relazione a numerosi temi (come, ad esempio, il libero movimento di merci, capitali, servizi e persone, l’istruzione, gli affari sociali, la protezione dei consumatori, la concorrenza, gli aiuti di Stato, ecc.), i quali, peraltro, non “toccano” altri aspetti particolarmente rilevanti e oggi fortemente sentiti (quali la politica commerciale, la politica estera e quella per la sicurezza comune). Per vero, un accordo tra l’Unione europea e la Gran Bretagna non può prescindere da talune doverose riflessioni. In primo luogo, sotto un profilo fattuale sono indubbiamente diverse le implicazioni – sulle Istituzioni europee e sugli altri Stati partecipanti – di una “uscita” dall’UE (per quanto deliberata da un Paese la cui permanenza in quest’ultima non è stata mai pienamente conforme agli standard che la connotano) rispetto a quello registrabile per la “non entrata” nell’Unione stessa (sempre per volontà popolare e per ragioni, almeno apparentemente diverse da quelle UK); in secondo luogo, senza voler sminuire la partecipazione dei Paesi che aderiscono all’EEA (European Economic Agreement), si deve considerare il peso economico, politico e sociale della Gran Bretagna, crocevia di interessenze e porta in Europa delle principali potenze economiche d’oltreoceano, soprattutto in campo finanziario. Sotto altro profilo, prima di passare a valutazioni relative agli effetti peculiari del leave, non si può omettere qualche breve cenno in ordine al carattere politico - giuridico del referendum in parola e, in particolare, alla sua funzione espressiva della sovranità popolare... (segue)
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