Nonostante le molte contraddizioni che a tutt’oggi segnano il lungo cammino percorso dalle donne per il pieno riconoscimento della parità tra i sessi, non mancano ormai soddisfatte attestazioni dei risultati acquisiti. Attestazioni le quali, contraddicendo le critiche ancora assai diffuse portate avanti dal pensiero femminista, danno testimonianza, con non minore certezza ed assertività, dei progressi ottenuti; tanto che, si è detto, introducendo uno dei più recenti studi in materia, che “il principio di eguaglianza, con riferimento alla distinzione di sesso, può dirsi oggi in larga misura attuato nel nostro ordinamento”. Possiamo o meno condividere tale assunto, ma certamente, come ho appena sottolineato, esso è oggi tutt’altro che isolato e minoritario. E ciò se è vero che lo stesso Presidente della Corte costituzionale, interloquendo con un giornalista nella conferenza stampa seguita alla sua elezione, si è espresso nello stesso senso, sottolineando come la legislazione italiana potesse essere a buon diritto considerata tra le più avanzate quanto a sostenere i diritti delle donne. Dico questo, non tanto per formulare un elogio dei tanti passi compiuti, quanto piuttosto per richiamare l’attenzione su un profilo che pensavamo avesse esaurito la sua attrattività. Esso, invece, è tornato alla ribalta, riaprendo percorsi che, pur ampiamente battuti, potrebbero inaspettatamente allontanare la meta finale. Mi riferisco all’ancora recente sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità della norma che prevede, nell’ambito della disciplina relativa all’assunzione del personale educativo negli educandati e nei convitti, una rigida distinzione di genere. Questa la norma in questione: “la distinzione fra alunni convittori e alunne convittrici opera ai soli fini dell’individuazione dei posti di organico per le esigenze delle attività convittuali da affidare a personale educativo rispettivamente maschile e femminile”… (segue)
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