
L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha segnato una cesura netta rispetto al periodo precedente in molti ambiti dell’organizzazione statale (come era d’altra parte nelle intenzioni dei Costituenti, che volevano in tal modo segnare un chiaro momento di rottura col fascismo ed una evidente discontinuità con l’esperienza del ventennio). Se però si vanno ad analizzare gli articoli contenuti nel Titolo V della Carta costituzionale e i principi che allora furono posti alla base dell’assetto degli enti locali e dell’articolazione territoriale della Repubblica, ci si rende conto che tale discontinuità e tale innovazione è molto meno evidente e che, in realtà, dall’Assemblea Costituente uscì un’impostazione che per molti versi ricalcava quella del periodo precedente, rifacendosi – in una linea di continuità mai effettivamente interrotta – all’impostazione centralista che fin dall’unità aveva caratterizzato l’Italia.
Certo, i padri costituenti avevano introdotto nella nuova Carta la rilevante novità delle Regioni, enti locali dotati di potere legislativo, ed avevano elaborato articoli nei quali il principio autonomistico veniva ampiamente riconosciuto: basti pensare al principio contenuto nell’art. 5 (“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento”) e all’art. 128 (“Le Province e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”).
(segue)
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