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NUMERO 19 - 15/10/2014

Che succede nel PD. Una lettura di antropologia politica

Per impostare un ragionamento non ideologico su cosa sta succedendo nel Partito Democratico, occorre tratteggiare i contorni di una mappa, non priva peraltro di incognite. La condizione attuale del PD è certo peculiare: nel momento in cui sembra realizzarsi il sogno di quella “vocazione maggioritaria” che Walter Veltroni e il gruppo dirigente del 2007 misero al centro della sua mission (Morcellini, Prospero, 2009), vive al suo interno due ordini di spaccature. La prima, la più naturale, è tra la “vecchia guardia” e la nuova “classe dirigente”, l’area di sinistra cattolica che si riconosce in Matteo Renzi e reclama la sua centralità con un’energia tale da dimostrare che del processo di rottamazione su cui il suo leader ha costruito il clamoroso consenso ottenuto alle Primarie del 2013 e poi alle Europee del 2014 si è persa solo l’etichetta. La seconda, che guadagna altrettanta visibilità nel palcoscenico dei media in funzione della presenza di un aspirante anti-leader come Pippo Civati, è tra i “renziani della prima ora” e i “renziani di governo”. I primi forti dell’eredità dei due appuntamenti alla Stazione Leopolda in cui Renzi e Civati hanno condiviso organizzazione e fortuna, ma indeboliti dalla percezione crescente dell’autocritica interna al partito come pratica autolesionista. I secondi forti del 40,8% delle Europee, ma un po’ incrinati dalle accuse di dividere gli scranni del governo con gli arcinemici di Forza Italia, del Nuovo Centro Destra e di ciò che resta di Scelta Civica (Gilioli, 2014). Per comprendere a fondo questa situazione, è facilmente riducibile nel racconto dei media a un gioco di potere che ha al centro un leader vincente e una schiera di cortigiani invidiosi, o viceversa un usurpatore del trono e un manipolo di valorosi intenzionati a riportare la pace nel regno, occorre mettere in campo due chiavi di lettura “difficili” quanto esplicative. Il conflitto, anzitutto, si consuma su una sfera antropologica, quella delle diverse antropologie politiche in campo. È più che evidente che Renzi rappresenta legittimamente l’ispirazione originaria del PD, quella di creare un partito comprendente in grado di catturare consensi non solo nell’area del centrosinistra. Ma l’attuale Segretario non si accontenta di essere una costola di un organismo di partito: la sua leggerezza, che è differente da quella di Veltroni nella misura in cui non è impedita da una lunga militanza in soggetti orgogliosi di chiamarsi partiti, mal si adatta ad essere imprigionata in un corpo lento e pesante. Renzi, che sembra il vero interprete del PD, occupa lo spazio semantico del partito in quanto Segretario, Presidente del Consiglio, uomo del 40%. Ma è difficile dire che lo spazio semantico del partito leggero renziano sia ancora quello di un partito prevalentemente, se non esclusivamente, di sinistra. Si tratta di un conflitto che attiene alle visioni del mondo, non alla “sola” idea di politica. Ad incidere è anzitutto la formazione culturale di Renzi: un modello di “Stato in appalto” (Prospero, 2003) che è una risorsa e non una minaccia, un buonismo cattolico di sinistra che non intende essere ancillare alla “linea ufficiale” del partito, farsi argomento da salotto nella consapevolezza di non avere spazio di manovra nella politica e nelle politiche del PD. Al di là delle note strumentalizzazioni circa la sua partecipazione giovanile a “La Ruota della Fortuna” e della più recente apparizione-show ad “Amici”, la Tv commerciale per Renzi rappresenta un modello culturale egemonico (Panarari, 2010) coerente e non avversario rispetto alla sua weltanschauung. E proprio per questo riesce a diventare un campo di valori ed esperienze da sfruttare a proprio vantaggio (Ruggiero, 2014). Inoltre, nella difficile convivenza tra le diverse anime del PD, l’area di riferimento per gli eredi della sinistra democristiana trova nell’attuale Presidente del Consiglio un rappresentate ideale. Uno che ha la “colpa” di aver fatto il boy scout invece di militare nella FIGC. La conflittualità profonda che risulta da questo quadro antropologico e sociale, prima ancora che politico, produce un inedito disorientamento. Non è raro che nei partiti e nelle coalizioni di centrosinistra si ingeneri una rivalità interna tra correnti o alleati; si potrebbe anzi perfino dire che il centrosinistra italiano ha elevato ad arte la conflittualità interna destinata a sfociare nella fine di una coalizione di governo (pensiamo al “ribaltone” di Bertinotti nel 1998, ma anche al clamoroso distacco di Antonio Di Pietro dieci anni dopo, sempre ai danni di Romano Prodi). Questa volta, però, a lasciare stupiti i leader del centrosinistra di formazione politica tradizionale è la capacità di Renzi di primeggiare nel campo della comunicazione. Intesa, questa, anzitutto in riferimento al posizionamento nei media – che non è solo iper-esposizione del capo, ma anche consapevolezza che il Segretario del PD è il “cavallo giusto” da mandare nella giostra dei media, con reciproca soddisfazione della politica e del giornalismo-spettacolo. Ma riferita anche al potere delle parole: “dissenso interno”, “concertazione sindacale” si svuotano di significato nell’era della comunicazione alluvionale (Morcellini, 2013). Coloro i quali fanno di questi termini la loro bandiera finiscono dunque per dare a Renzi un vantaggio strategico inestimabile, quello di poterle stressare fino a lasciare ai suoi oppositori solo la lamentazione brechtiana de La lode al dubbio per cui “le nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili".... (segue)



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