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NUMERO 4 - 25/02/2015

Il parlamentarismo europeo al tempo della globalizzazione

Il rapporto conflittuale tra globalizzazione e politica è la grande questione democratica del nostro tempo. Ed è difficile fare una distinzione – sulla natura intrinseca di questo conflitto e dei suoi effetti – tra piano nazionale e piano europeo. La globalizzazione ha provocato fenomeni di sradicamento sociale e di spaesamento politico che si ripercuotono egualmente sui due piani. Ha, in primo luogo, cambiato la struttura sociale, conformata negli ultimi due secoli sui modi di produzione. Creando la figura del lavoratore isolato di massa; riducendo o azzerando la valenza politica dei corpi intermedi; cancellando o vulnerando i legami di solidarietà sociale. Ha, poi, consentito forme di dominanza incontrollata del capitale finanziario e delle sue fluttuazioni acefale: con asservimento della politica a regolazioni da essa non create e a sanzioni comminate talora in asimmetria rispetto allo stesso senso economico delle cose. Ha infine precarizzato le appartenenze politiche connesse a “concezioni del mondo”. Appartenenze che si sono, per così dire, “secolarizzate”: svuotate dalla logica passionale (logica più passioni) che le animava e le rendeva credibili (il progresso, il liberalismo, l’eguaglianza). Ha in altri termini segnato anche la fine dei partiti: almeno nella forma che ha marcato i sistemi politici e costituzionali della modernità. Questo significa che anche il parlamentarismo si trova senza quei partiti politici che – attraverso i gruppi – ne hanno costituito la struttura portante. È curioso notare che assistiamo a un fenomeno di radicale crisi del parlamentarismo: con fattori simmetricamente opposti a quelli che furono visti dalla classica critica al fondamento democratico dei parlamenti agli inizi del ‘900. Allora (Schmitt, Weber, Michels, Mosca) vedevano crollare, sotto l’urto dei partiti di massa, la dottrina della deliberazione sviluppata dal parlamentarismo c.d. liberale come sua ragione fondante. Cioè crollava la sua “base sistemica”, un crollo segnalato dalla celebre descrizione di Carl Schmitt: «istituzione che ha perduto il proprio terreno mantenendosi in piedi come un guscio vuoto che continua ad appoggiarsi meccanicamente, mole sua». Sappiamo come – con il suffragio universale, con le leggi elettorali proporzionali, con i gruppi a proiezione dei partiti, con le commissioni – il parlamentarismo abbia superato la prova: con una sorta di mimetismo rispetto alla struttura sociale organizzata sui partiti di massa. Ma ora che questi sono dovunque divenuti inattuali, quale può essere la “base sistemica”, il “nocciolo essenziale dell’istituzione del parlamento moderno”, per usare le stesse parole di Schmitt? Diviene questo allora il tema centrale: è possibile una democrazia senza “quei” partiti? Quegli stabili avvisatori di domande sociali, ma anche fattori attivi di promozione di consenso su linee guida, concezioni del mondo, appunto? E soprattutto sono possibili parlamenti senza “quei” partiti: nel senso che la loro elezione non sia stata preceduta da campagne elettorali condotte, sul filo di programmi, da soggetti politici collettivi che su quei programmi convincano il corpo elettorale? E che si proiettino nelle assemblee con corrispondenti gruppi parlamentari e con un congruo assetto procedurale? La risposta a queste domande può essere positiva: ma solo a condizione che modifichiamo la nostra concezione di partito o, più precisamente, se l’adeguiamo alla realtà politica. Una realtà che ci mostra il vecchio modello superato o in via di sorpasso da tre diversi tipi di partiti: in cui l’appartenenza e il patrimonio culturale sono sostituiti dalla precarietà delle scelte e dell’appeal politico del momento. In primo luogo, partiti-elettorali. Diversissimi però dai partiti americani che hanno dietro la loro organizzazione di scopo, uno storico capitale ideologico e di senso popolare. Qui parliamo di formazioni che nascono su speculazioni alla “borsa” dell’opinione e dei sondaggi... (segue)



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