Per rispondere alla domanda: “Una costituzione per l’Europa?”, è necessario affrontare alcune questioni preliminari. Per primo ripercorrere i problemi del processo d’integrazione europea; in secondo luogo indagare chi governa l’Europa e come; poi analizzare il rapporto tra crisi economico-finanziaria e processo d’integrazione europea e le conseguenze prodotte negli stati membri; infine, ipotizzare alcune vie d’uscita al sentimento diffuso che considera l’Europa “in trappola” (Offe 2014), “in un cono di bottiglia” (Amato 2014), “in mezzo al guado” (Viesti 5/2013), “nella spirale tecnocratica” (Habermas 2014). Se guardiamo alla storia del processo d’integrazione europea possiamo cogliere i tratti di una crisi istituzionale che non è stata superata, nonostante le tappe compiute dagli anni 50 in poi e i successi comunque raggiunti. La questione del deficit democratico non è stata colmata: non solo non esiste un demos europeo, ma non si è realizzata neppure l’idea di Jean Monnet secondo cui “noi non coalizziamo gli Stati, uniamo esseri umani” (1951). Gli Stati e i loro governi hanno mantenuto gelosamente spazi politici notevoli, accresciuti anche a seguito dell’allargamento. L’Europa è soprattutto una “comunità di diritto” che ha prodotto uno ius commune europaeum (Stolleis 2012), ma non ancora una comunità politica unita, che vuole realizzare un processo politico di unificazione. Ci sono diritti e valori comuni, resi cogenti dalla “costituzionalizzazione”, nel Trattato di Lisbona, della Carta di Nizza: ma chi sono i soggetti portatori di quei diritti e di quei valori, quelli che devono realizzarli in concreto? E come possono essere attuati in un contesto nel quale non è stato risolto il problema della sovranità, della kompetenz kompetenz? Il fallimento della “costituzione europea” (2003) e il successivo Trattato di Lisbona (2007) hanno portato allo scoperto l’ambiguità del motto europeo “uniti nella diversità”: nella migliore delle ipotesi quella formula pone solo le premesse per un compromesso dilatorio. Nell’incertezza delle istituzioni europee e nel dualismo irrisolto tra Unione e stati membri, l’attuazione di quel compromesso si è spostata dal piano politico delle istituzioni politiche, a quello dell’applicazione amministrativa e giudiziaria. La risoluzione dei conflitti, che inevitabilmente si producono, specie quando è codificato insieme il primato del diritto europeo e il rispetto delle identità nazionali (art. 4.2. e 6.3 del Trattato UE), se non avviene in sede politica, valorizza ed esalta la funzione creativa degli organi tecnici e della giurisdizione. Proprio l’assenza d’istituzioni di governo e di politiche europee di governo sta all’origine dell’inarrestabile crescita del potere burocratico europeo e della forza maieutica dei giudici europei, tra cui, soprattutto, della Corte di Giustizia. La collegata teoria del multilevel constitutionalism, in quest’ ambito, finisce solo per nobilitare quello che altri chiamerebbero juristocracy. L’allargamento dell’Unione agli Stati dell’Est non ha creato minori problemi: è avvenuto in maniera frettolosa e senza tenere conto delle conseguenze sugli equilibri politico-istituzionali. I nuovi stati membri, al pari degli altri, hanno preteso che la propria sovranità – appena riconquistata dopo la caduta del comunismo – non fosse messa in discussione dal processo d’integrazione. L’allargamento ha rafforzato gli elementi di diversità esistenti tra gli Stati edentro l’Unione. L’aspetto più evidente è la diseguaglianza sociale che emerge nel contesto europeo, che si concretizza in diffusi fenomeni di dumping sociale che accentuano le differenze nei sistemi di protezione sociale delle democrazie più mature e delle democrazie appena nate. Un diritto come quello europeo che si regge soprattutto sulla giurisprudenza, non può, tuttavia, superare queste differenze; né, tantomeno, produrre una parvenza di coesione sociale, ma solo dare risposte casuali e prive di coerenza. La recente decisione della Corte di Giustizia che vieta il “turismo sociale” (11 novembre 2014) è perfettamente coerente con il principio di libertà di circolazione e di stabilimento e con il connesso requisito di capacità economica che ciascun cittadino europeo deve esprimere quando si muove liberamente nell’Unione. Ciò si spiega perfettamente con il modello dominante dell’homo oeconomicus europaeus e, quindi, con l’idea di una cittadinanza europea meramente formale, solo derivata o secondaria. Una simile prospettiva, invece, è difficilmente compatibile con i fondamenti di uno stato costituzionale, in cui centrali sono la libertà politica e le politiche legislative per la coesione sociale. Ma quella situazione è anche del tutto insopportabile dal punto di vista di un autentico processo d’integrazione politica che abbia come fine realizzare una “società di eguali” (Rosanvallon 2012)... (segue)
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