Nella recente polemica circa l’incidenza del Franco CFA sul fenomeno migratorio, innescata il 20 gennaio da un autorevole esponente del M5S quale Di Battista, nel corso della nota trasmissione “Che tempo che fa”, e rimbalzata da un comizio elettorale ad Avezzano dal vice-presidente del consiglio Di Maio, il giorno successivo, molti sono i punti quantomeno controversi, ma si possono cogliere anche aspetti positivi. Parto proprio da questi ultimi. Nel merito: l'esponente di un partito di Governo ha affermato, nel corso dello show: “oggi dobbiamo occuparci delle cause, perché se ci si occupa soltanto degli effetti si è nemici dell’Africa”, e il vice-premier gli ha fatto eco, asserendo che mai più si sarebbe occupato d’altro che delle “cause” delle migrazioni. Dopo mesi di campagna condotta da una parte di quello stesso Governo a suon di numeri (di corpi, di giorni d’attesa, di imbarcazioni) sul tratto di mare che separa l’Italia dall’Africa, finalmente, si parla pubblicamente di Africa, in ore diurne o quasi, e dei cosiddetti contesti di provenienza. Nei mezzi: rotocalchi televisivi, radiofonici e giornali dei più disparati settori, matrici e colori hanno dedicato un approfondimento alla disfida avverso la Francia (o meglio verso la politica estera francese, come da smentita del 22 gennaio sul Blog del Movimento), spiegando al proprio uditorio/ai propri lettori “i fatti”, denunciando “le bufale”, o smentendo quelle denunce ricopiando vecchi articoli anti-signoraggio, ripescando blogger o intervistando qualche “prof”. Il rapporto fra Europa e Africa è complesso, viscerale, giocato, dopo la seconda guerra mondiale in oltre 70 anni di rivendicazioni, collaborazionismo, violenza, omertà, cinismo, depredazioni, incomprensioni, diffidenza, delusioni, ma anche di profonde nostalgie, impegno, soccorso e cooperazione palese e - forse, anche più spesso - occulta, che han mantenuto intatto un rapporto asimmetrico; è quasi una certezza che, per l’ennesima volta, anche questa campagna sarà un vulcano estinto prima di eruttare. Perché usare la seconda guerra mondiale come spartiacque? Perché i protagonisti di questa storia, in un panorama spezzettato fra amministrazioni coloniali, Stati periferici funzionali ad una madrepatria da soddisfare a suon di corvée e colonizzazione di corpi incatenati a codici di indigenato, le cui anime erano “salvate” da una miriade di chiese e missioni religiose, si erano studiati, si conoscevano e i vincitori della guerra avevano a quel punto maturato la chiara consapevolezza di aver violato un principio sacro, che la Carta Atlantica mirava a sanare: l’autodeterminazione dei popoli, garantendo a qualsiasi stato accesso a mercato e risorse per la propria prosperità economica, e tutta una serie di Organizzazioni Internazionali sono nate a questo scopo. Niente è lineare. Quel che è accaduto da allora ha completamente stravolto le aspettative. La guerra fredda ha corroborato colonialismo in neo-colonialismo, non liberando dal bisogno (per citare nuovamente la Carta Atlantica) i figli dell’Africa, né gli Stati che andavano nascendo, quasi tutti, peraltro, nel pluralismo partitico e col viatico di propositi progressisti e coraggiosi, condivisi allo straordinario vertice di Bandung del ‘55. Mancanza di infrastrutture e di esperienza amministrativa diretta, ma anche l’oggettiva impossibilità di conversione della produzione funzionale ai bisogni dell’Europa, per soddisfare la domanda interna, han reso ben presto insoddisfacenti le performance degli Stati, per quanto ambiziose (il Ghana di N’krumah) e creative (la Tanzania di Nyerere) fossero, arrivando addirittura a concepire federazioni per compensare economie zoppe con la promessa che - se non per interesse per solidarietà - l’Africa si sarebbe un giorno unita, con l’istituzione dell’Organizzazione dell’Unità africana... (segue)
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