Nelle ultime settimane è esploso il fenomeno ChatGPT. Si tratta di un prototipo di chatbot (agente conversazionale) basato su di un sistema di Intelligenza Artificiale ad apprendimento automatico (machine learning) sviluppato dalla società OpenAI, e su cui la stessa Microsoft ha investito oltre dieci miliardi di dollari. “Un saggio, un articolo, il copione di un film, le risposte di un quiz ma anche del codice informatico: non c’è cosa che con un breve input testuale nella finestra da chat del programma non si possa generare”, osserva entusiasta un commentatore sulle pagine di Agenda Digitale. La mia personale esperienza è molto meno entusiasmante, tuttavia. Può darsi che sia perché, con l’approccio tipico del professore universitario, non mi accontento di una risposta comunque approssimativa e, soprattutto, priva totalmente di un esatto riferimento alle fonti. Se si chiede a ChatGPT di menzionare le sue fonti rispetto ad un testo che ha prodotto, il chatbot risponde infatti, inevitabilmente, o che non è in grado di indicarle (e che occorre fare riferimento alle banche dati bibliografiche); o indicando fonti bibliografiche largamente “inventate”. Questo perché ChatGPT è stato costruito utilizzando algoritmi di apprendimento automatico, in particolare di Deep Learning. I suoi “dati di allenamento” consistono in moltissimi testi, provenienti da varie fonti, ivi compresi testi accademici. Tuttavia, l'accuratezza delle risposte dipende in via principale dalla qualità e accuratezza delle informazioni contenute nei suoi dati di allenamento. Inoltre, essendo stato addestrato utilizzando una variante dell'apprendimento non supervisionato che è la c.d. “modellazione del linguaggio mascherato”, quando genera una risposta utilizza le conoscenze acquisite dai suoi dati di formazione per generare nuovo testo, completando le informazioni mancanti. Sicché, se “inventare” non è il verbo corretto, vero è, tuttavia, che i testi generati sono a rischio elevato di imprecisione, se non di vero e proprio errore (... segue)
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