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NUMERO 22 - 25/11/2015

 Smart City: condividere per innovare (e con il rischio di escludere?)

Sempre più spesso, onde muoversi in città, le persone usano il bike sharing o il car sharing, oppure fruiscono di servizi quali quelli forniti da AirBnB; ampio dibattito ha suscitato la vicenda Uber, segnata da interventi, proposte e omissioni; gli esperti discutono sulle numerose possibilità, ancora non del tutto esplorate, di miglior utilizzo delle infrastrutture fisiche attraverso quelle informatiche (si pensi alla possibilità di disaggregare lo sfruttamento di una rete stradale o autostradale, che potrebbe essere in qualche modo “spacchettata”, onde ottenere una sorta di piattaforma di servizi con cui gli utenti possano dialogare). Grazie all’impiego delle nuove tecnologie, si assiste allo sviluppo di moduli flessibili di distribuzione dell’energia - le cd. smart grids - in cui anche gli utenti diventano protagonisti attraverso lo scambio di informazioni con produttori e distributori. Le città favoriscono iniziative dirette a consentire la condivisione di spazi, tecnologie, esperienze: termini come co-working, cloud-computing, crowdsourcing, crowdfunding, peertopeer, prosumer, etc… sono neologismi ormai di comune utilizzo nel linguaggio quotidiano; proliferano le Apps che utilizzano informazioni possedute dalle amministrazioni locali o che fanno riferimento ai relativi servizi. Tutti questi fenomeni hanno a che fare, seppure in misura molto diversa tra di loro, con la Smart City. Tale espressione, nel corso degli ultimi tempi, comincia a essere impiegata anche nel dibattito politico, nella riflessione scientifica (invero non tanto in quella giuridica) e nella prassi amministrativa. Come spesso accade allorché vengano utilizzati termini inglesi, più o meno evocativi, che non trovano una precisa corrispondenza nella disciplina normativa “domestica”, risulta difficile fornire un convincente inquadramento giuridico del fenomeno che l’espressione indica. Tuttavia, la realtà che si cela dietro a quell’espressione, assai viva, è di sicuro interesse anche per il diritto ed è in grado di incidere in modo assai significativo sulla vita delle persone, nonché su libertà e diritti. In sintesi, siamo al cospetto di uno spaccato di dinamica sociale e di fronte a una fattispecie che esibisce aspetti di novità tali per cui il diritto non può disinteressarsi. Pare dunque giunto il momento in cui anche i giuristi debbano impegnarsi per offrire il proprio contributo all’analisi e all’inquadramento del fenomeno e, soprattutto, alla soluzione dei numerosi problemi che lo stesso suscita, evitando – per quanto possibile – di limitare l’orizzonte di indagine all’esame di singole questioni giuridiche. Al riguardo, giova sin da subito anticipare l’impianto metodologico che si intende seguire in questa sede allo scopo di fornire un tentativo di spiegazione del fenomeno della Smart City; non si ritiene, in particolare, che l’inquadramento giuridico di siffatto fenomeno debba fondarsi su di un approccio di tipo analitico attraverso la spiegazione dei singoli elementi che compongono il “sistema” Smart City, ma debba essere studiato da un punto di vista sistemico che dia conto della rilevanza delle reciproche relazioni e interazioni tra i vari elementi. In altre parole, il fenomeno della Smart City colto da una prospettiva sistemica sembra essere in grado di intercettare degli aspetti non altrimenti percepibili ricorrendo esclusivamente ad un procedimento di tipo analitico. Il sistema, infatti, genera proprietà che non possono essere colte e comprese guardando alle singole parti: la Smart City mira appunto a “mettere in rete”, “fare sistema” e valorizzare le singole componenti della comunità. E’ intanto opportuno ricordare che, a livello di legislazione primaria, pur se non compare l’espressione Smart City, esiste ed è disciplinata la fattispecie delle «comunità intelligenti». Il d. l. 18 ottobre 2012, n. 179, recante «Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese», convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, all’art. 20, c. 16, si riferisce all’inclusione intelligente, intesa come «capacità, nelle forme e nei limiti consentiti dalle conoscenze tecnologiche, di offrire informazioni nonché progettare ed erogare servizi fruibili senza discriminazioni dai soggetti appartenenti a categorie deboli o svantaggiate e funzionali alla partecipazione alle attività delle comunità intelligenti». Tali attività sono poi definite da un apposito piano nazionale, secondo i criteri stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro delegato all’innovazione tecnologica. Cominciano qui a emergere alcuni tratti caratterizzanti del problema che ci impegna, costituiti dal rilievo delle tecnologie e delle informazioni (cui deve essere garantita l’accessibilità), dall’obiettivo dell’inclusione e del favor nei confronti dei soggetti svantaggiati. Tutto ciò trova conferma anche dalla lettura del c. 17 dell’art. 20 cit., dal quale si ricava anche la nozione di uno “statuto” delle comunità intelligenti. La norma, più in particolare, statuisce che l’accessibilità dei sistemi informatici di cui all'art. 2 della l. 9  gennaio  2004, n. 4, e l'inclusione intelligente costituiscono principi fondanti del piano nazionale delle comunità intelligenti e dello statuto delle comunità intelligenti nonché delle attività di normazione, di pianificazione e di regolamentazione delle comunità intelligenti. Senza soffermarsi sulle iniziative adottate a livello internazionale (che peraltro colgono soltanto uno dei numerosi aspetti del fenomeno in esame), vanno poi ricordati i riferimenti, per lo più di soft law, presenti a livello europeo... (segue) 



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