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Il 20 dicembre 2017, il Senato della Repubblica ha adottato la modifica del proprio Regolamento. La riforma, in particolare, nel testo definitivo approvato dalla Giunta per il Regolamento di Palazzo Madama - sulla base di un iter iniziato già agli albori della XVII legislatura, poi interrotto in vista della respinta riforma costituzionale del 2015-2016 -, integrato da alcuni emendamenti in sede di approvazione, consta di sei articoli. Come è stato notato dai primi commentatori, l’intervento, pur presentando aporie più o meno marcate, rappresenta comunque il primo intervento di riforma organica del Regolamento di Palazzo Madama dal 1971, traguardo importante per la nostra Camera alta che, a differenza dell’assise di Montecitorio, non era mai riuscita ad aggiornare il principale strumento di governo interno in un arco di tempo quasi cinquantennale, costringendosi a fare ricorso ad un affastellato, spesso caotico, di consuetudini, prassi e precedenti raramente codificati. Del resto, proprio da questa congerie è partito lo sforzo riformatore, che peraltro è arrivato a buon esito nonostante le oggettive difficoltà di una legislatura fortemente conflittuale qual è stata la XVII; difficoltà che, per converso, hanno impedito all’altro ramo del Parlamento di procedere ad una modifica regolamentare organica legata a doppio filo al fallito progetto di revisione costituzionale sottoposto a referendum nel 2016. Guardando gli eventi in prospettiva, si è creata una situazione quasi paradossale: la Camera dei deputati, l’organo che in pendenza della discussione sul disegno di legge di revisione costituzionale ha lavorato maggiormente ad una modifica del proprio Regolamento, quasi che essa potesse prescindere dall’esito della prima, ha visto la propria Presidenza prendere atto di una vera e propria occasione sprecata, nonostante la quantità di materiale elaborato nel corso della legislatura; mentre il Senato, che sarebbe uscito fortemente trasformato dalla modifica della Carta fondamentale e aveva, perciò, deciso di rinviare a tempi migliori qualsiasi discussione sullo strumento interno, è riuscito con un vero e proprio sprint finale ad approvare, poco prima della fine della legislatura, modifiche importanti. Molto si è detto anche sui fattori decisivi per la riforma: sicuramente, non possono non aver avuto peso intanto un’istanza – che si potrebbe definire carsica, essendo piuttosto ricorrente nella Storia del nostro parlamentarismo contemporaneo – di omogeneizzazione dei regolamenti delle due Camere; e inoltre, in stretto collegamento con essa, la riforma della legge elettorale politica, che ha pressoché uniformato il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi per entrambi i rami del Parlamento, in questo adempiendo a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 35 del 2017, a parere della quale «la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee». I primi commenti alla riforma hanno dovuto necessariamente arrestare le proprie considerazioni alle soglie della XVIII legislatura, il cui avvio travagliato ha ulteriormente diminuito il lasso temporale di apprezzabilità delle concrete ricadute dell’intervento; a quasi un anno dall’inizio del nuovo mandato parlamentare, tuttavia, alcune considerazioni, che non pretendono certamente di essere esaustive, sono comunque possibili, anche in prospettiva futura al fine di analizzare le ricadute, se non sulla forma di governo, quantomeno sulla possibilità di interventi analoghi sul Regolamento della Camera, e di ulteriori nell’ambito di una più generale e coordinata azione di riforma di entrambi i Regolamenti. Una premessa metodologica appare doverosa: come si è già avuto modo di notare, anche sulla scia di analoghe impressioni avanzate dalla dottrina, le analisi relative allo svolgersi della XVIII legislatura scontano le turbolenze politiche che hanno determinato un tardivo ritorno all’andamento ordinario dei lavori parlamentari rispetto alla fisiologica fase di transizione tra legislature. Inoltre, per quanto il presente contributo aspiri ad essere, anzitutto, di taglio giuridico, non si potrà prescindere da un continuo sguardo alla realtà concreta del Senato; né si potrà tralasciare, ad esempio, il riferimento a dati meramente quantitativi della XVII e della XVIII legislatura. Giocoforza, dunque, molti degli aspetti della riforma organica del regolamento del Senato saranno più incisivi, e visibili, di altri, e saranno per ciò meglio approfonditi rispetto a quelli i cui effetti, nell’arco temporale considerato (inferiore all’anno di legislatura), risultano scarsamente riscontrabili e apprezzabili, in quanto necessariamente improntati ad una logica di lungo periodo evidentemente non ancora integrata. Infine, ci si soffermerà maggiormente sulle modifiche che hanno già avuto una prima applicazione, o che comunque vi si sono avvicinate in maniera, quantomeno, potenziale. Resteranno sullo sfondo quelle innovazioni che hanno avuto minor riscontro nella prassi, ma non per questo meno importanti; anzi, come si avrà modo di dire, esse contribuiscono a rendere conto di come la recente riforma organica si avvicini ad un preciso modo di vedere la forma di governo proprio del Senato… (segue)
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