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Nell’attuale fase politica, la discussione concernente le riforme costituzionali si colloca quasi interamente nel solco tracciato dal dualismo tra principio rappresentativo e principio popolare, tra istituti parlamentari e quelli referendari. Si tratta, entro certi termini, di un fenomeno inedito. Storicamente, infatti, il fil rouge del dibattito degli ultimi trent’anni è stato il superamento del bicameralismo paritario, da realizzarsi attraverso l’integrazione della rappresentanza politica generale e, in qualche caso, tramite una redistribuzione delle funzioni tra le due Camere. Ancora di recente, l’ampliamento degli spazi di partecipazione dei cittadini nell’ambito della nostra forma di governo attraverso un potenziamento degli istituti referendari è stata una prospettiva marginale nella discussione sul futuro delle nostre istituzioni; paradigmatico, in questo senso, quanto avvenuto in coincidenza con il dibattito relativo al progetto di revisione costituzionale cd. “Renzi-Boschi” nonostante le previsioni volte a disciplinare l’introduzione, a livello statale, di “referendum popolari propositivi e d'indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali” al fine di “favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche”. In un certo senso, tutto ciò sembra appartenere al passato. Il disegno di legge costituzionale A.C. 1173-A (A.S. 1089) concernente la riforma dell’art. 71 Cost. introduce la possibilità di indire un referendum sia nel caso in cui una proposta di legge venga presentata da almeno cinquecentomila elettori e le Camere “non la approvino entro diciotto mesi dalla sua presentazione”, sia nel caso in cui le Camere approvino “la proposta in un testo diverso da quello presentato e i promotori non rinunzi[...]no” (e, in questo caso, il referendum avviene “su entrambi i testi” - comma sesto) e, così facendo, sembra in grado di favorire uno slittamento delle coordinate del dibattito sulla riforma del nostro assetto di governo… (segue)
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