Il binomio potere-responsabilità rappresenta un tema classico della scienza costituzionalistica. Storicamente è stato uno dei gangli vitali attorno a cui si è costruita la dottrina dello Stato di diritto. L’osservazione della realtà ci dimostra che si tratta di un tema tutt’altro che meramente teorico e soprattutto ben lungi dall’essere risolto. Molte vicende legate alle dinamiche del costituzionalismo contemporaneo ci interrogano sulla definizione dei suoi caratteri e sul rilievo che deve essergli attribuito. Uno degli ambiti più delicati in cui il binomio si immerge è quello della definizione delle relazioni tra titolarità delle funzioni giudiziarie e responsabilità nel loro esercizio. Oppure, in altri termini, è quello della difficile ricerca di un “giusto” equilibrio tra il potere del magistrato e i diritti soggettivi del cittadino. Si tratta di snodi cruciali che da molto tempo tormentano i delicati rapporti tra magistratura e politica, e che ancora oggi, nemmeno dopo la recente riforma legislativa, trovano delle risposte univoche. La legge n. 18 del 2015 è una riforma che, fin da subito, ha calamitato su di sé l’attenzione soprattutto della magistratura, per almeno due ragioni: l’abolizione del filtro di ammissibilità della domanda e la nuova configurazione della cd. clausola di salvaguardia. Come si cercherà di approfondire in seguito, si tratta di interventi che mirano a dare una risposta concreta alle recenti sollecitazioni provenienti dalla Corte di Giustizia e, al contempo, a rendere effettiva la responsabilità dei magistrati, come espressamente dichiarato fin dall’art. 1. Una riforma era dunque necessaria, sebbene la nuova legge rischi di non soddisfare l’esigenza primaria di risoluzione di un conflitto che, come già accennato, è tutt’ora irrisolto. Sembra che il legislatore, facendosi “prendere la mano” con slogan alquanto populistici, si sia di fatto lasciato sfuggire un’importante occasione per riflettere più approfonditamente sulla delicatezza del ruolo che compete al magistrato, senza però trascurare il diritto del cittadino ad essere risarcito, qualora leso da un provvedimento giudiziario “ingiusto”. In altre parole, da un lato vi è la necessità che il cittadino danneggiato dall’attività giurisdizionale venga tutelato, dall’altro, vi è l’esigenza che il magistrato, nella sua peculiare funzione, possa lavorare serenamente, senza turbamenti o pressioni esterne. Per poter analizzare questa riforma è però necessario inserirla in un discorso di più ampio respiro, che prenda le mosse dal codice del 1865, il primo che introduce una qualche responsabilità del magistrato, fino ad approdare all’ultimo tentativo di riforma del 2015, passando per la tanto discussa legge n. 117/88. Si tratta di un percorso tutt’altro che lineare, non solo per la ricerca costante di un equilibrio, ma anche per l’intervento non di poco conto operato, negli ultimi anni, dal Giudice di Lussemburgo. Vi sono alcuni interrogativi costanti che si ripropongono nel corso degli anni: il magistrato può essere qualificato come un funzionario qualsiasi ai sensi dell’art. 28 della Costituzione? E se sì, così come il medico o l’avvocato che sbagliano, deve rispondere del proprio operato? In cosa dovrebbero consistere l’an e il quantum di una tale responsabilità? Le tendenze giurisprudenziali degli ultimi decenni, nonché, più in generale, alcuni mutamenti di paradigma nel rapporto tra Stato e cittadino, hanno determinato una drammatizzazione delle questioni e reso sempre più spinosi questi interrogativi. Il sempre maggiore sviluppo della giurisprudenza di corti sovranazionali a protezione dei diritti fondamentali ha contribuito a modificare la percezione del rapporto di sudditanza del singolo nei confronti dell’Autorità, nel quadro di una generalizzata tendenza a vedere riconosciuti i diritti individuali a fronte di qualunque prestazione funzionale, di natura pubblica o privata... (segue)
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