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di Paolo Simoncelli
Oportet ut eveniant scandala. A trent’anni dall’omicidio di Aldo Moro
L’Italia ha una cultura ormai intellettualmente pigra; forse, essendo morto (o trovandosi almeno in coma irreversibile) lo Stato nazionale, non avverte più neanche la necessità di un maggior dinamismo riflessivo, di una vivacità capace di affrontare l’allucinazione della realtà. Pavidità antropologica e conformismo abituale sorreggono convenzioni comode, diffuse, confortanti, impedendo l’azzardo della violazione dei confini del noto. Il mito e il rito caratterizzano radicate culture barocche, retoriche, come appunto quella italiana, in cui tradizionalmente la liturgia sostituisce la fede, con tutti i vantaggi del caso: dalla rassicurante socializzazione della partecipazione massiccia al rito, all’evasione lecita (suggerita, cercata, accolta, a volte imposta) dalla fatica del ragionamento e dell’accertamento. Una cultura barocca che continua a vivere e a rispecchiarsi compiaciuta con tutta la sua indefettibile malìa e fascino comodo e manomissione storiografica nel (rito) trentennale della morte di Moro.
Morte che ha segnato l’inizio della fine delle Brigate rosse; contrappasso violento e logico, anche perché – diciamolo francamente – a pagare con la vita era stato uno dei massimi esponenti della classe politica (oggi diremmo “casta”); nel decennio precedente non erano mancate certo vittime, ma appartenevano a categorie sociali sottostanti, da agenti delle forze dell’ordine, ad avversari politici di strada, per lo più impiegati, povera gente che si trovava nella sezione di quartiere del Msi al “momento sbagliato”, eppoi giornalisti, magistrati… Ma politici no. Il sospetto che se i brigatisti non avessero attentato alla “casta” avrebbero potuto avere vita più lunga è offerto dalla precipitosa approvazione in Consiglio dei ministri del VI governo Andreotti, del decreto legge 21 marzo ’78, n° 59 (cinque giorni dopo la strage degli agenti di scorta a Moro e del suo sequestro) che, fra nuove misure di polizia e restrizione delle libertà individuali dei cittadini, variava il precedente art. 630 del codice penale aumentando con l’ergastolo la pena “se dal sequestro deriva la morte della persona sequestrata” (come se in precedenza la tradizione dei “sequestri” ad opera del banditismo sardo non avesse mai provocato vittime; evidentemente e consequenzialmente queste altre vittime, non appartenendo alla “casta”, non avevano rilievo ai fini della necessità dell’inasprimento delle pene).
(segue)
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