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di Giancarlo Doria
Nomina sunt consequentia rerum. Nota a prima lettura della sentenza In re Marriage Cases della Corte Suprema della California
Con la sentenza In re Marriage Cases, pronunciata lo scorso 15 maggio, la Corte Suprema della California ha sancito a stretta maggioranza l’illegittimità costituzionale delle sezioni 300 e 308.5 del Family Code dello Stato, nella misura in cui esse escludevano dall’accesso alla definizione di “matrimonio” le unioni formate da individui dello stesso sesso. Pur avendo infatti riconosciuto – convenendo con l’Attorney General – che da un punto di vista sostanziale, grazie alla recente introduzione dell’istituto della domestic partnership, le coppie omosessuali californiane già godono di una forma di riconoscimento e tutela giuridica “di fatto eguale” (virtually equal) a quella garantita dal matrimonio, i Giudici di San Francisco hanno fatto un passo in avanti, affermando che il semplice fatto (formale) che a tali coppie sia negato l’accesso alla designazione tradizionale di “marriage” costituisce comunque di per sé una violazione dei diritti loro attribuiti dalla Costituzione dello Stato.
Per giungere a tale conclusione, il ragionamento della Corte – che si snoda lungo le 121 pagine della pronuncia, significativamente stesa dal Chief Justice Ronald George – segue due percorsi distinti, ma paralleli, che giova riportare subito nei loro termini essenziali prima di esporli in maniera più analitica nei paragrafi successivi. Anzitutto, i Giudici ridefiniscono il concetto di right to marry contenuto nella Costituzione come ricomprensivo non solo dei diritti sostanziali classici di natura fiscale ovvero legati alla prole – tutti aspetti sotto i quali la domestic partnership cui le coppie omosessuali hanno accesso non differisce punto dal marriage tradizionale – ma anche di un fondamentale diritto (formale) a “veder riconosciuta alla propria relazione familiare dignità e rispetto eguali a quelli accordati ad altre famiglie ufficialmente riconosciute” (p. 8); ed affermano dunque che, mentre è vero che la normativa in materia tutela i diritti del primo tipo, è altrettanto vero che, proprio in quanto pone un istituto para-matrimoniale, ma al contempo sceglie di escluderlo dalla qualifica tradizionale di “matrimonio”, essa finisce inevitabilmente per conculcare quelli del secondo tipo.
(segue)
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