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di Giovanni Maria Flick
La responsabilità civile dei magistrati. Le proposte di modifica tra disinformazione e realtà
L’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea stabilisce che «ogni individuo ha diritto che la sua causa sia esaminata da un giudice indipendente ed imparziale …»; l’identico principio si trova affermato anche nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo; entrambi questi strumenti sono ora richiamati dal Trattato dell’Unione. L’art. 111 della nostra Costituzione a sua volta recita, in termini pedissequi, che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale». Il paradigma della terzietà ed imparzialità del giudice è un valore che non si riflette esclusivamente sulla posizione del singolo magistrato chiamato ad esercitare la funzione giurisdizionale; ma rappresenta la «cifra» di riconoscimento del primato della legalità che caratterizza la giurisdizione. Soltanto un giudice terzo e imparziale può essere tributario del “diritto-dovere” di soggezione soltanto alla legge. E parlo di diritto, perché il vincolo “soltanto” alla legalità è dimensione non di riduzione delle attribuzioni, ma di esaltazione del relativo primato a fronte di qualsiasi pressione esterna. In tale cornice, ormai da tempo sedimentata, si iscrive l’ampia problematica connessa al se e come articolare meccanismi di tutela dei singoli, nelle ipotesi in cui l’esercizio delle attribuzioni giurisdizionali abbia potuto determinare un danno “ingiusto”. Una prima riflessione credo sia necessaria. Se l’indipendenza e la terzietà del giudice devono proiettarsi non soltanto all’interno del processo, ma anche al suo esterno – come fattore su cui si radica la fiducia dei cittadini che a vario titolo possano essere stati coinvolti dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali – se ne deve dedurre che il piano dei rapporti “reciproci” giudice-cittadini non è misurabile sulla semplice falsariga delle relazioni intersoggettive iure privatorum. Dunque, il danno che il cittadino possa assumere di aver subito dall’attività giurisdizionale non può misurarsi sulla stessa falsariga dei comuni rapporti fra privati. Ove fosse offerta sempre al singolo cittadino la possibilità di agire sempre in giudizio – pretendendo di dimostrare che il processo che lo ha visto coinvolto ha prodotto un risultato errato e per lui dannoso – si offrirebbe il destro ad una costante rivedibilità dei processi, sulla base degli stessi parametri di accertamento che hanno dato luogo al fatto in ipotesi dannoso. Si assisterebbe, dunque, ad una catena inarrestabile di processi sui processi, l’ultimo dei quali tendente a dimostrare che il giudice del precedente processo ha sbagliato; e l’azione di responsabilità si snaturerebbe in una prosecuzione abnorme, all’infinito, dei meccanismi dell’impugnazione. E’ quindi evidente che la fonte della responsabilità per il danno patito a seguito della attività giurisdizionale non può raccordarsi alla ordinaria culpa aquiliana... (segue)
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