
Il tema dell’integrazione differenziata nell’ambito dell’Unione europea può essere preso in esame, in via di prima approssimazione, adottando un approccio appena intuitivo e, come tale, ancora indefinito. Così, può affermarsi che l’integrazione differenziata consiste in una diversità di regole – di diritto primario ovvero derivato – e in un differente ruolo delle istituzioni dell’Unione europea nei diversi Stati membri. Questa nozione di integrazione differenziata appare indubbiamente distante, forse addirittura agli antipodi, rispetto al metodo “comunitario” e, in particolare, a quel «mercato comune» di cui riferiva, tra gli altri, Pierre Pescatore, concepito come prodotto di unificazione giuridica, da realizzare soprattutto attraverso un tipo di atto di diritto derivato, individuato, non a caso, nel regolamento, elevato a fonte principale del sistema. È evidente che il fenomeno dell’integrazione differenziata presenta una serie di profili di incoerenza con quell’immagine tradizionale del diritto comunitario, oggi dell’Unione europea. Né mancano nei trattati riferimenti testuali che paiono contraddire l’integrazione differenziata come sopra, sia pur ancora latamente e imprecisamente, definita. Basti pensare, anzitutto, all’«unione sempre più stretta fra i popoli» dell’Europa, o europei, di cui al preambolo, rispettivamente, del TUE e del TFUE (nonché all’art. 1, comma 2°, TUE), come pure all’«azione comune» attraverso la quale assicurare il progresso economico e sociale degli Stati membri. Indice di tale impostazione è altresì la previsione di una fonte, il già citato regolamento, «direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri», ciò che evoca per se un’idea di unitarietà del sistema. Non meno significativa, nello stesso senso, risulta la funzione ermeneutica svolta dalla Corte di giustizia, quale centro unitario di interpretazione, attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale, non soltanto del diritto dell’Unione europea, ma anche di alcuni ambiti del diritto internazionale pattizio funzionali alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione o, in precedenza, delle Comunità. Si pensi, inoltre, all’elaborazione, da parte della stessa Corte, di una ben precisa categoria di principi generali, sulla scorta, inter alia, di «tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» (art. 6, par. 3, TUE), che in realtà comuni non sono, ma sulle quali si è fondata un’opera di creazione di diritto primario uniforme, realizzata partendo da valori eteronomi, divergenti o, comunque, non sovrapponibili, la cui diversità è stata, di volta in volta, sostanzialmente svalutata, ridotta, per trasformarli in principi comuni del sistema. Ancora, con riferimento alla Corte, si consideri il monopolio del controllo sulla validità degli atti dell’Unione – sancito nella sentenza Foto-Frost mediante una rilettura delle disposizioni dettate dall’art. 267 TFUE –, che preclude ai giudici nazionali il potere di dichiarare invalido, o disapplicare, un atto delle istituzioni che non sia già stato oggetto di una declaratoria di invalidità da parte della Corte. Infine – ma, forse, al di sopra di qualsiasi altro aspetto rilevante in tal senso – si pensi al primato del diritto dell’Unione, che, pur non essendo codificato nelle disposizioni pattizie, come era stato previsto dall’art. I-6 del trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, è richiamato nella dichiarazione finale n. 17, attraverso una formula molto criticata e, almeno in parte, riduttiva, ma che non modifica nella sostanza l’indiscussa centralità del principio in questione. Se i citati indizi sembrano dimostrare l’esistenza, nell’ambito dell’Unione europea, di una pluralità di elementi contrari all’idea di differenziazione, ve ne sono tuttavia altri che, valorizzando proprio tale idea, conducono a ritenere possibili uno o più modelli di integrazione differenziata. È il caso, ad esempio, del rispetto dell’«identità nazionale» degli Stati membri, sancito dall’art. 4, par. 2, TUE, già art. I-5 del trattato-Costituzione, da taluni letto come codificazione del c.d. primato invertito, ma anche della riserva degli “aspetti fondamentali dell’ordinamento giuridico penale” di ciascuno Stato membro ai fini di cui ai parr. 3 dell’art. 82 e dell’art83, TFUE , nonché del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 5 TUE. È altresì il caso del motto dell’Unione europea, «unita nella diversità» , facente parte dei simboli di cui all’art. I-8 del trattato-Costituzione, oggi richiamati – benché soltanto da alcuni Stati membri – nella dichiarazione finale n. 52; motto che, proprio in quanto simbolo, calato in un contesto “costituzionale”, si arricchisce di un valore evocativo particolarmente forte... (segue)
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