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NUMERO 10 - 20/05/2015

 Una 'lettura intergenerazionale' della sent. n. 70 del 2015

La Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2015 ha semplicemente dichiarato illegittime le norme statali che formalizzavano uno specifico bilanciamento tra i diritti dei pensionati all’aggiornamento del proprio reddito e le esigenze di contenimento della finanza pubblica; un bilanciamento ritenuto irragionevole e non proporzionato per alcuni aspetti e comunque sostenuto da esigenze finanziarie (sono parole del Giudice delle leggi!) “non illustrate in dettaglio”. Questo significa, a modesto parere di chi scrive, che è ben possibile stabilire una nuova proporzione della limitazione dell’aggiornamento delle pensioni purché sia diversa da quella dichiarata illegittima. D’altronde la stessa Corte costituzionale, nell’ampia e articolata argomentazione contenuta nella pronuncia, ha fornito una descrizione puntuale delle manovre possibili: citando la precedente giurisprudenza e le misure simili già adottate in passato dal legislatore, la Corte stessa disegna in qualche modo le soluzioni accettabili (durata limitata del blocco dell’aggiornamento, differenziazione per fasce di reddito, protezione del potere di acquisto complessivo, etc…). Sul rapporto tra equilibrio finanziario e diritti, la Corte costituzionale ha dunque solamente la penultima parola per sua espressa (seppur non necessaria) ammissione. A questo punto, ci si chiede se sia possibile l’adozione di un decreto-legge che, con effetto retroattivo all’entrata in vigore delle norme della legge di conversione del decreto-legge n. 201 del 2011, rimoduli, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, il blocco delle pensioni usando rinnovati parametri soggettivi (titolari di redditi multipli della pensione minima superiori a tre volte) e oggettivi (blocco modulato progressivamente a scaglioni in base al reddito). Si può adottare un decreto-legge per disciplinare materie oggetto di una sentenza della Corte costituzionale? Non si tratta di giudicato ordinario o amministrativo per il quale sussiste un riconosciuto divieto di intervenire con legge per impedire l’applicazione del giudicato. Non siamo in presenza di un caso simile alla vicenda Englaro allorché il Presidente della Repubblica non emanò il decreto-legge del Governo (con motivazioni di altro tipo) e parte della dottrina sottolineò che si trattasse di un intervento illegittimo perché teso a intervenire sulle pronunce del giudice. Non è possibile inquadrare l’attuale intervento in un tentativo del potere legislativo di intervenire sul giudicato e quindi di interferire con il potere giudiziario. L’art. 15 della legge n. 400 del 1998, giustamente, vieta l’impiego del decreto-legge esclusivamente per “ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento”. La Corte costituzionale, dunque, dialoga naturalmente con il legislatore perché la prima può modificare indirettamente l’ordinamento ma spetta solamente a quest’ultimo disciplinarlo. L’art. 136 Cost., d’altronde, prevede espressamente che la sentenza della Corte costituzionale sia comunicata alle Camere “affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali”. Questo inciso non può semplicemente significare che il Parlamento può fare leggi nelle materie oggetto dei giudizi della Corte costituzionale; esso significa invece che proprio quando c’è una pronuncia della Corte che produce un vuoto normativo o che ha un impatto molto forte sull’ordinamento giuridico, il legislatore deve essere nelle condizioni di intervenire... (segue) 



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