Nell’archivio storico del Senato della Repubblica, nella sezione dedicata all’Istituto Cinecittà Luce, si può rivedere il cinegiornale che presentò il XXXIV Congresso del PSI, svoltosi al teatro Lirico di Milano dal 15 al 20 marzo 1961. La chiusura del congresso sembrava esser già annunciata, tanto che già prima dell’apertura questo era annunciato come un passaggio che avrebbe cambiato il corso, non soltanto della più antica formazione di sinistra italiana, ma del Paese in generale, che oramai si avviava sulla strada del centro-sinistra, lasciandosi alle spalle il tramontato centrismo. Durante quei cinque giorni si scontrarono vivacemente le correnti dei socialisti: alla linea autonomista di Nenni si contrappose la linea alternativista di Vecchietti e Basso, e si dovettero fare i conti con l’insuccesso elettorale delle amministrative del novembre 1960, nonostante l’incipiente svolta a sinistra della politica italiana. A Milano si riuniva quindi un Congresso che mentre raccoglie consensi politici, paradossalmente si indeboliva dal punto di vista elettorale. Quando il Teatro Lirico aprì i suoi battenti, si presentò un partito che aveva di fronte la possibilità di una rapida evoluzione verso il centro-sinistra, con largo successo dei socialisti, ma come contropartita, c’era una forte possibilità di aggravare lo scontro all’interno del partito. Così da un lato, Nenni, che propugnando la scongiura della «mummificazione» del partito ormai costretto ad adeguarsi al mutamento, doveva fronteggiare l’opposizione interna della sinistra che rifiutava qualsiasi ipotesi di collaborazione con i cattolici e doveva respingere la deriva massimalista poiché «ricca di elementi di fermezza nella lotta di classe, quanto povera di capacità operativa e di iniziativa politica», per giungere al «definitivo chiarimento sui concetti di alternativa e autonomia»; dall’altro, la sinistra, che al Congresso si fondeva con la corrente di Basso, e che, per bocca di Vecchietti, in maniera asciutta ma efficace, sosteneva che «se le cose fossero realmente come si dice, al nostro partito si aprirebbero solo due strade: prepararsi alla rivoluzione o ad assolvere un ruolo subalterno alla DC, per salvare almeno la democrazia. E poiché la rivoluzione giustamente non la si vuole, né ci sono le condizioni per farla, al PSI resterebbe in pratica aperta solo la strada di Saragat». Il segretario riconobbe come l’astensione socialista nella formazione del III governo Fanfani e la partecipazione alle cosiddette “giunte difficili” fossero già stati sintomo di un «primo successo politico del dialogo con i cattolici», e attaccò coloro i quali si opponevano, nel partito, all’incontro con i cattolici, in quanto non avevano compreso che creare, come si è fatto, «nuovi centri di potere democratico nei comuni e nelle province, vuol dire disorganizzare la destra». «La svolta a sinistra era possibile», affermava Nenni nella sua relazione, ed anzi, nella mozione finale approvata dalla maggioranza autorizzava «l’appoggio esterno del partito ad una maggioranza impegnata nell’attuazione di un programma costituito da precise scadenze tali da significare una svolta a sinistra nella politica del paese». Nel suo discorso Nenni elencò quelli che, a parer suo e non solo, erano le motivazioni che avevano portato a poter affermare che la svolta fosse possibile: innanzitutto sul piano internazionale, la distensione tra i due blocchi rendeva possibile conciliare la linea neutrale del PSI con la fedeltà atlantica delle DC; sul piano interno invece, a partire dalla caduta del governo Tambroni, si era notato un progressivo spostamento a sinistra dell’asse del governo. In questo senso non si chiedeva però un’alleanza politica vera e propria, poiché Nenni voleva garantire e proteggere l’«indipendenza assoluta rispetto alle finalità dei blocchi di potenza occidentale e orientale e dei sistemi che essi difendono». Il segretario calcò l’accento sulla scelta del metodo democratico che il suo partito aveva fatto, come «unica via al socialismo del nostro paese», che si espletava anche nel rispetto dell’«autonomia del movimento politico dei cattolici, delle loro organizzazioni, del loro partito, dagli interessi conservatori e dalla soggezione politica alla gerarchia ecclesiastica». La conclusione del segretario non lasciava spazio a fraintendimenti quando chiedeva alla DC un «atto di irrevocabile rottura con la destra», anche se era ben chiaro a tutti che non ci fossero le condizioni – e non era neanche nelle prospettive del PSI – né per «un’alleanza generale con la DC», né «per una partecipazione dei socialisti ad una maggioranza parlamentare organica e tanto meno a responsabilità dei governi». La mozione finale del congresso ribadiva che era possibile «l’appoggio esterno del partito a una nuova maggioranza impegnata all’attuazione di un programma costituito da obiettivi concreti e da precise scadenze, tali da significare una svolta a sinistra nella politica del paese»... (segue)