
Con le decisioni assunte dal Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio l’Unione europea, rispondendo alle richieste e alle preoccupazioni del premier britannico Cameron, ha segnato un punto di svolta nel processo di integrazione europea. E ciò a prescindere dallo specifico contenuto delle conclusioni del Consiglio, che, come già in altre occasioni, ha dovuto dosare ambiguità e sfumature per trovare un punto di equilibrio tra le tante posizioni in giuoco. Due letture nettamente contrastanti si confrontano. Da una parte si è detto che, proprio per garantire sopravvivenza e continuità al processo europeo, si è riusciti a trovare quel compromesso necessario per mantenere l’indispensabile unità tra tutti i Paesi membri innanzi alla sfida, a prima vista inedita, posta dal Regno Unito mediante il ricorso ad uno strumento dal fortissimo impatto politico e simbolico. Infatti il leader conservatore, esasperando i toni del conflitto sino a livelli davvero inconsueti, ha posto sul tavolo del negoziato il promesso appello al “suo” popolo sovrano, come giudice ultimo sulla permanenza del Regno Unito all’interno di uno dei processi istituzionali più importanti del mondo contemporaneo. Dall’altra parte, si è rilevato che il senso della direzione di marcia assunto con le decisioni concordate dal Consiglio – e la cui efficacia è rimandata, si badi bene, al momento in cui sarà noto l’esito del referendum britannico – produce sin da subito pericolose fratture o comunque approfondisce faglie già esistenti nel processo di integrazione. Ad esempio, là dove si riconosce...(segue)
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