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FOCUS - Riforma costituzionale N. 1 - 27/01/2016

 Il coordinamento della finanza pubblica nella riforma costituzionale: la materia diventa competenza esclusiva statale, ma restano fuori le autonomie speciali. Un gap difficile da colmare

Il testo della riforma ha raccolto ben poco dei suggerimenti che la Relazione finale della Commissione degli Esperti nominata dal governo Letta aveva sviluppato riguardo alle modifiche dell’art.119 Cost: si trattava di suggerimenti che avrebbero senz’altro contribuito ad un salto di qualità dell’assetto attuale. Senz’altro di grande rilievo è stata la decisione (avvenuta però nell’ambito dei lavori del Senato e non nel testo base presentato dal governo, che conteneva invece alcuni evidenti errori - sic! - di redazione) di costituzionalizzare, conformemente a quanto suggerito nella Relazione, costi e fabbisogni standard, denominati, per evitare inglesismi nella Costituzione, “indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza”. E’ una innovazione potrà condurre ad una applicazione decisamente più rigorosa di quella attuale dei costi e fabbisogni standard, ad esempio all’interno del Patto per la Salute.  Tuttavia, le altre indicazioni sono rimaste lettera morta e la riforma si è limitata a portare (soluzione non suggerita dalla Relazione finale) nella competenza esclusiva statale la materia coordinamento della finanza pubblica: il nuovo art.119 Cost. recita infatti “Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, in armonia con la Costituzione e secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. E’ un passo indietro notevole, che sembra riportare alla vecchia formulazione dell’art.119 della Costituzione, tradendo così le oggettive esigenze di riforma in questo ambito che avrebbero dovuto invece porre le basi per una maggiore (e non certo inferiore) responsabilizzazione delle realtà sub statali. Già con l’attuale art. 119 il nostro sistema, anche per il fallimento (per motivi prevalentemente esogeni) su questo versante della autonomia impositiva riforma tentata con la legge n. 42 del 2009, si struttura come un modello di representation without taxation quanto alle Regioni e di finanza “infernale” (si perdoni il realismo del termine) quanto ai Comuni. Non era quindi il caso di fare passi indietro in quest’ambito. Peraltro, se non fosse che nell’ambito della competenza regionale residuale il Senato ha modificato il testo governativo, inserendovi la regolazione “sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza Pubblica”, sarebbe stata scritta la parola fine anche su esperienze virtuose come quella della regionalizzazione del Patto di stabilità. Portando la materia del coordinamento della finanza pubblica dalla competenza concorrente a quella esclusiva statale, in ogni caso si verifica anche l’effetto perverso di una sostanziale legittimazione dei tagli meramente lineari, dal momento che proprio in base al carattere concorrente della materia la Corte costituzionale era giunta, da un lato, a stabilire limiti a queste prassi obbligando il legislatore statale a porre solo “obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica” e a non prevedere “in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenza n. 148 del 2012; conformi, ex plurimis, sentenze n. 232 del 2011 e n. 326 del 2010)” e, dall’altro, a imporne il necessario carattere transitorio.  Con la modifica inserita nel testo costituzionale i giusti principi enucleati da questa giurisprudenza verrebbero travolti e si avrebbe una nuova legittimazione dei discutibilissimi tagli lineari (la cui efficacia in relazione ad effettivi processi di spending review è senz’altro dubbia, avendo spesso prodotto solo l’effetto di scacciare la spesa buona e mantenere quella cattiva). Inoltre, non viene per nulla considerata l’esigenza di stabilità, anch’essa evidenziata dalla Relazione finale: eppure la situazione della finanza territoriale (in particolare quella locale, con la tormentata vicenda dell’Imu, più che quella regionale) è stata terremotata da continui interventi che hanno devastato le capacità di programmazione degli enti (oltre a rendere particolarmente complessa e odiosa al contribuente l’obbligazione tributaria), come è stigmatizzato dal fatto delle continue proroghe, per effetto della incertezza sulle risorse disponibili, il temine assegnato ai Comuni per approvare i bilanci preventivi (addirittura è stato stabilito, dal decreto legge n. 133 del 2013, nel 30 novembre 2013 con possibilità di deroga anche fino al 15 dicembre)! Non sono certo queste le condizioni per l’esercizio di una autonomia fiscale responsabile: occorrerebbe quindi creare le premesse per un quadro che garantisca stabilità. La soluzione più opportuna per rimediare alle attuali incongruenze sarebbe stata quella di prevedere una legge bicamerale sugli elementi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, in modo da garantire al sistema quella stabilità che è condizione indispensabile per il suo corretto funzionamento e per la responsabilizzazione (già Hamilton nel Federalist definiva l’autonomia impositiva come il potere sufficiente di provvedere a una quantità “regolare e adeguata” di mezzi finanziari). Nella Costituzione tedesca le basi imponibili che spettano ai Comuni e ai Länder sono stabilite nella lunga parte che in essa viene dedicata al sistema di finanziamento delle autonomie (artt. 105 ss. G.G.). Una soluzione analoga non sembra prospettabile nella Costituzione italiana, dove l’effetto della stabilizzazione potrebbe essere ottenuto assegnando ad una legge bicamerale la definizione degli elementi fondamentali del sistema di finanziamento delle autonomie territoriali. La soluzione ricalcherebbe quindi della LOFCA spagnola: nella legge bicamerale dovrebbero essere indicate le linee fondamentali del sistema di finanziamento (ad esempio quali compartecipazioni o quali basi imponibili vengono assegnate agli enti territoriali, la struttura fondamentale dei tributi e della perequazione, i principi generali e fondamentali di coordinamento del sistema). La legge ordinaria, rispetto alla quale il Senato avrebbe il normale, limitato, potere di intervento, potrebbe poi modulare le aliquote o l’entità delle compartecipazioni, sia per interventi ordinari o anche eventualmente per fare fronte a esigenze straordinarie di manovra pubblica, ma non potrebbe stravolgere il sistema definito dalla legge bicamerale. Per ottenere questo risultato occorrerebbe quindi espungere dall’art.117 della Costituzione il riferimento al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, per inserire quindi una riserva di competenza, in relazione al suddetto coordinamento, a favore della legge bicamerale all’interno dell’art.119 della Costituzione. La specificazione degli elementi essenziali definiti dalla legge bicamerale risulterebbe poi di competenza della legge statale (ad esempio la determinazione delle aliquote di compartecipazione ad un tributo erariale come l’Iva) o della legge regionale (ad esempio l’istituzione di una imposta regionale su un presupposto lasciato libero dalla imposizione statale), secondo la rispettiva competenza. Con questa soluzione il contenzioso sarebbe evitato perché i principi generali rimangono stabili in quanto condivisi e approvati con legge bicamerale, mentre la loro specificazione seguirebbe l’ordinario procedimento legislativo con la prevalenza della Camera dei Deputati a maggioranza semplice... (segue)



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