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NUMERO 7 - 06/04/2016

 Il referendum UK e l'ipotesi di Brexit

In un recente analisi sulle ragioni del difficile rapporto tra ‘politica e finanza nell’UE’ sottolineavo come la generalizzata tendenza verso un’Unione dai confini sempre più ampi riscontrabile in ambito europeo può tradursi, sul piano delle concretezze, in un affievolimento del processo d’integrazione; ciò con ovvia, conseguente rinunzia all’obiettivo di un’unione politica, nel quale continuano a credere i nostalgici del ‘sogno europeo’. Ed invero, nel rappresentare l’intervenuto ridimensionamento dell’originario progetto dei padri fondatori - al presente riconducibile alla realizzazione di una semplice zona di «libero scambio» - tenevo a precisare che la Gran Bretagna deve essere annoverata tra gli Stati membri che, più di altri, hanno concorso nel determinare le condizioni per una revisione del disegno politico di una «Europa libera e unita» (ipotizzata da Aliero Spinelli ed Ernesto Rossi per contrastare il totalitarismo imperante nel ‘vecchio continente’ durante la seconda guerra mondiale).  E’ questa una conclusione coerente con la linea comportamentale di tale Paese che - restato fuori dalla fase di avvio dell’Europa a «sei» - ha concluso solo nel 1973 i negoziati per l’ingresso nel ‘mer­cato comune’, dopo aver superato gli ostacoli sottesi alla transizione da una realtà globale (alla quale è tradizionalmente legata) ad una regionale (dei cui contesti deci­sionali ha voluto essere partecipe). Gli accordi conclusi a Bruxelles nel febbraio 2016 tra il primo ministro David Came­ron e i vertici europei riconoscono alla Gran Bretagna uno status particolare all’interno dell’UE. Le concessioni in parola spaziano dalla simbolica ‘attestazione’ che detto Paese non farà parte di un’Unione «sempre più stretta» a facilitazioni di vario genere (tra le quali assume specifico rilievo la possibilità di limitare i sussidi per gli immi­grati comunitari). Tali accordi presentano peculiare significato in quanto costituiscono prova ineludibile delle difficoltà incontrate dall’Unione europea e dai suoi membri nel superare le logiche dell’utilità economica poste a fondamento delle concrete modalità d’attuazione del progetto dei padri fondatori volto a sviluppare forme progressive di convergenza, aventi come obiettivo finale l’unione politica. Difficoltà che si è resa, peraltro, manifesta in tutti i più delicati passaggi politici che l’Unione ha dovuto affrontare in anni recenti, dalla crisi greca a quella libica; ad essa appare, quindi, riconducibile l’indubbio affievoli­mento delle ragioni che indussero il Regno Unito a partecipare alla Comunità europea, prima, all’Unione, poi (come è dato desumere dall’assunzione in tale Paese di una linea decisionale volta a privilegiare la convenienza economica sulle motivazioni valoriali improntate alla coesione ed alla solidarietà tra i paesi aderenti). Il difficile momento in cui viene assunta detta linea decisionale - caratterizzato da ipotizzabili sospensioni del Trattato di Schengen, dalla problematica definizione di  riparti dei migranti tra i diversi paesi, di evidenti disparità nei livelli di crescita all’in­terno dell’UE - potrebbe invogliare altri Stati a chiedere ‘trattamenti privilegiati’, con l’inevitabile conseguenza di avviare un processo di segno opposto rispetto a quello che, più di mezzo secolo fa, indusse i paesi sottoscrittori del ‘Trattato di Roma’ ad unirsi e a sperare in un futuro comune. Ciò finirebbe con l’alimentare la sfiducia nella costruzione di una «casa comune», donde il venir meno della speranza che è ancora possibile ricercare un altro modo di vivere l’Europa!... (segue)



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