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Se lo scrittore più sensibile al bello - al punto da dare nome ad una sindrome provocata dalla straordinarietà delle opere d’arte - enunciò, nei primi decenni dell’Ottocento, in un trattato de l’amour, la teoria della cristallizzazione, la nostra Corte costituzionale, almeno fino agli anni Settanta, l’ha tradotta in criterio d’individuazione dei beni meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 9 Cost. Era stato, invero, il legislatore pre-repubblicano a recepire quella concezione estetica del paesaggio che la Corte coglie, come coglierà le successive evoluzioni legislative. La legge sulla «Protezione delle bellezze naturali» - la n. 1497/1939 - dava tutela, infatti, (anche) alla «bellezza naturale» ed alla «non comune bellezza», in quanto di «notevole interesse pubblico», apprezzava il «valore estetico» e si esprimeva nei termini figurativi (e decisamente non giuridici) di «quadri naturali»: un’idea di paesaggio improntata, dunque, ad una concezione estetizzante. Analoga rappresentazione del bello di natura era stata accolta, ancor prima - ma con minore articolazione -, dalla legge del ‘22 (la l. n. 778/1922), su cui, per ovvie ragioni temporali, la Corte costituzionale non ha mai potuto esercitare il suo scrutinio. In effetti, trattandosi di un tempo antecedente alla Costituzione del ‘48 ed al suo sistema di regole e valori, non si sarebbe potuto intendere il bello di natura se non in senso puramente estetico ed il paesaggio stesso come sinonimo e col significato di panorama, vale a dire di veduta che l’etimo greco di questo termine suggerisce. L’estetica non può che cogliere il bello - in questo caso, naturale - e, dunque, ciò che è percepibile ai sensi, alla vista in particolare. Non percettibile, però, solo dai sensi di pochi, bensì di chiunque, a soddisfare un’umana necessità di appagamento dell’animo; una fruizione del bello che si traduce in un miglioramento della qualità della vita e che, pertanto, dev’essere accessibile a tutti ed è interesse di tutti. Una dimensione, dunque, decisamente democratica del bello di natura che lo fa assurgere ad «interesse pubblico», per la prima volta qualificato tale. Purtuttavia, nelle parole di vari commentatori - soprattutto a partire dagli anni Ottanta - si ravvisa sufficienza, se non vero e proprio disprezzo, per una concezione del bello, che, in quanto puramente estetica, rimane oziosa, appannaggio delle classi agiate, limitata a recepire la bellezza naturale senza spendersi per essa, né in termini di protezione né di evoluzione. Nella giurisprudenza costituzionale, la sinonimia tra “paesaggio” e “bellezze naturali” segue la stessa parabola toccatale nella legislazione e nella considerazione della dottrina. Vi si afferma e permane, infatti, dagli anni ‘60 fino alla metà degli anni ‘80, con un’attenuazione graduale di nettezza sul finire di questo periodo. Ben vi possiamo ascrivere la sentenza n. 65 del 1959, la n. 56 del 1968, la n. 141 del 1982, ed anche, con la necessità di qualche precisazione, la n. 239 del 1982. La tutela del paesaggio, di cui all’art. 9 Cost., per la prima delle quattro sentenze citate, rimane chiaramente compresa «nella più ampia “protezione delle bellezze naturali”». Le successive pronunce confermano una concezione puramente estetizzante del paesaggio, ai sensi della stessa norma, fino, almeno, alla sentenza n. 239, nella quale, alle “solite” «bellezze paesistiche», viene correlato un “nuovo” «valore estetico-culturale» da proteggere... (segue)
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