
Vi sono obiettivi che ispirano e danno il nome a corrispondenti azioni pubbliche, muovendo prima il legislatore e conseguentemente gli organi di amministrazione attiva, che mostrano una particolare resistenza al tempo e riemergono perciò in maniera costante nell’agenda delle riforme. Il carattere ricorrente di certe misure nei programmi che puntano al rinnovamento delle pubbliche amministrazioni è senz’altro ascrivibile a molteplici fattori: una elementare necessità di graduare il cambiamento e di distribuire quindi i relativi processi di trasformazione lungo un ampio arco di tempo; l’eventuale insuccesso delle politiche pubbliche che richiede perciò l’adozione di misure ulteriori tese al conseguimento degli obiettivi originariamente programmati; una tecnica di redazione delle disposizioni che provoca un disallineamento – all’esito, per esempio, del diffuso impiego delle c.d. “norme manifesto” – tra la portata effettiva della norma, priva di valore precettivo, e i traguardi annunciati dal legislatore, tecnica che, da un lato, è alla origine di politiche pubbliche inefficaci, in quanto non assistite da strumenti di intervento adeguati allo scopo, e dall’altro lato, rileva quale autonoma causa dell’inflazione che si registra nell’uso di certi termini, ché appunto rimandano ad una dimensione prescrittiva solo apparente. L’atteggiamento spesso ondivago del legislatore completa il quadro rendendo non sempre possibile inserire in un disegno coerente e consapevole gli interventi normativi condotti nel segno di un determinato fine. Appaiono sovente evocate nei tentativi di trasformazione dei modelli di esercizio dei pubblici poteri, registrati nel corso degli ultimi tre decenni, ed orientano perciò l’attenzione della giurisprudenza e della scienza giuridica, le logiche della liberalizzazione, della privatizzazione e della semplificazione, seppur con livelli di intensità differenti in ragione delle fasi prese in considerazione per ciascuna di esse, e con una forza non sempre corrispondente alla frequenza con cui esse compaiono nella produzione legislativa oggetto di esame. Complice della compresenza dei tre paradigmi nell’indirizzo delle strategie (politiche, o interventi) di riforma è del resto il carattere polisemico e dinamico delle relative nozioni, e dunque la circostanza che i fenomeni riassunti da tali termini nella realtà interferiscano reciprocamente e si sovrappongano, potendo a certe condizioni divenire l’uno evoluzione dell’altro. Il fatto che le politiche definite dai concetti in esame, segnatamente quelle di liberalizzazione e di semplificazione, concorrano al ripristino della libertà di iniziativa economica privata attenuando i condizionamenti pubblici che sulla stessa incidono, fa sì che esse gravitino in un’area di contiguità in cui, talvolta, la seconda tendenza perde la sua accezione propria originaria, e cioè l’attitudine ad alterare radicalmente i “normali moduli procedimentali” in nome del principio di efficacia e senza mettere in discussione la necessità del ruolo dei pubblici poteri, e diventa piuttosto un processo volto, su un piano più generale, ad alleggerire la relazione tra cittadino e pubblica amministrazione, riducendo la presenza di quest’ultima e “sburocratizzando” l’attività (del privato) al fine di aumentare la competitività del sistema economico-produttivo e la qualità del sistema sociale... (segue)
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