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NUMERO 6 - 22/03/2017

 Armonizzazione e democraticità dei bilanci regionali

È un dato acquisito che le politiche comunitarie degli ultimi anni hanno avuto riflessi istituzionali non di poco conto nei paesi membri. Esse, incidendo sulle scelte economiche dei governi, hanno modificato le relazioni tra i vari attori operanti nell’arena istituzionale, generalmente in senso di accentrare le scelte in capo al potere esecutivo, a volte, come nel caso italiano, a seguito di un’apposita novella costituzionale. Eppure, l’inizio del secolo si era aperto in modo diverso. La riforma costituzionale del 2001 era sembrata completare il sistema delle Autonomie, delineando un modello «imperniato sull’autosufficienza finanziaria e sull’autonomia di entrata e di spesa di tutti gli enti di governo», e attuando «il passaggio da un automatismo derivato di tipo gerarchico e piramidale a uno relazionale». Otto anni dopo, la legge n. 42 del 2009 interveniva a coniugare «il federalismo fiscale con i principi costituzionali di autonomia, unità e solidarietà, della pubblica amministrazione, dell’organizzazione del territorio, dell’ordinamento tributario e contabile»; in definitiva, il federalismo fiscale avrebbe dovuto «contribuire a rendere stabili i conti pubblici, per definire ex novo i concetti di autonomia dei territori ed uguaglianza tra cittadini». Nonostante i buoni propositi, il progetto, «ambizioso nelle finalità, si rivelava velleitario nella fase di attuazione». Il ritardo accumulato ne ha determinato il fallimento, dal momento che il varo della legge n. 42 è coinciso con l’inizio della profonda e a tratti violenta crisi dei mercati mondiali. Quando il tempo del federalismo sembrava giunto, da un lato è stato rallentato da vecchie resistenze centraliste mai sopite, dall’altro si è scontrato rovinosamente con la necessità di un rapido e drastico risanamento delle finanze. A minare il federalismo sono stati anche gli attori istituzionali che avevano, ciascuno in parte qua, la responsabilità della sua realizzazione, «generando il dilagare dei cd. ’dialetti contabili’». L’effetto congiunto di più fattori ha spinto il legislatore a un nuovo intervento sulla Carta.  La l. cost. n. 1 del 2012, quasi una controriforma rispetto agli obiettivi del 2001, ha introdotto l’obbligo del pareggio in bilancio (seppure mitigato, sul piano lessicale, dalla formula «dell’equilibrio di bilancio»), e ha individuato nell’armonizzazione dei bilanci, assegnata in via esclusiva allo Stato, lo strumento per controllare e condizionare l’operato contabile delle regioni. Per quanto riguarda il rapporto tra lo Stato e le autonomie territoriali, la riforma del 2012 ha dettato criteri più stringenti, per cui le misure che ne sono derivate hanno prodotto la «totale centralizzazione di politiche e determinazioni generata dall’azione di contenimento della crisi», i cui effetti hanno riconsegnato allo Stato «le quote più significative dei processi decisionali riguardanti i sistemi locali». Nonostante gli auspici, la novella contiene profili di criticità. Ad esempio, le «interferenze categoriali tra diritto ed economia», ossia l’ingresso, all’interno del sistema delle fonti, di concetti di stampo marcatamente economico, ha prodotto un’alterazione dei parametri di giudizio. «Ciclo economico», «tagli lineari», «pareggio strutturale di bilancio», «spending review». In questi anni i provvedimenti adottati in sede europea, cui l’art. 117 Cost. opera una sorta di rinvio mobile, hanno introdotto una serie di termini così pervasivi che la stessa Corte costituzionale ha dovuto sempre più spesso misurarsi con essi. Un’altra questione attiene agli effetti che le norme importate dal diritto comunitario hanno sul bilancio. Esso esprime le scelte politiche che riguardano le modalità di reperimento delle risorse pubbliche e il loro impiego e riallocazione; in questo senso il bilancio traduce e rappresenta la democraticità delle scelte, per cui è necessario «le rappresentanze del popolo siano poste a conoscenza e partecipino alla gestione dei beni della collettività ed all’esercizio del potere di delibera delle spese pubbliche». Le scelte contabili producono sempre effetti sulla collettività amministrata, quindi dal loro studio è possibile ricavare «una chiave importante di analisi del funzionamento di qualunque democrazia», dal momento che la sua redazione travalica il piano della semplice tecnica economica, toccando il tema della legittimazione democratica di chi lo approva. Da queste premesse discende tutto il dibattito di questi anni circa la legittimità delle politiche economiche attuate. Se all’inizio la crisi economica è stata affrontata nel modo più tipico dei sistemi istituzionali multilivello, ossia comprimendo «fortemente la capacità di spesa degli enti territoriali», e «riassorbendo sul governo centrale le principali politiche di intervento pubblico», da quando l’esecutivo deve adeguarsi alle richieste che provengono dalle autorità comunitarie la dottrina ha cominciato a interrogarsi sulla legittimità di tali vincoli. Per alcuni il problema attiene alla «effettiva funzionalità delle teorie monetariste, che stanno alla base della riforma, a garantire le condizioni per una reazione alla crisi finanziaria e economica» in corso; per tale posizione l’idea che «la soluzione dell’attuale congiuntura politico-istituzionale vada affrontata in chiave esclusivamente economica è un classico esempio di parallasse». Per una posizione ancora più netta ormai si assisterebbe a «un cambio di paradigma: quello del rapporto tra scelta democratica, elaborazione, proposta tecnica e decisione»; ci sarebbe cioè un vulnus in atto alla democrazia di bilancio, ossia a quel sistema, da sempre in vigore nella nostra Costituzione, per cui nella «intersezione tra scelta politica ed elaborazione tecnica» era sempre la prima a prevalere sulla seconda. Oggi le cose sembrano capovolgersi, perché se «gli organi della decisione collettiva (…) non determinano e non controllano le decisioni fiscali, la decisione che innova l’ordinamento è altrove». In tal modo, «l’egemonia culturale del liberismo economico», che sembra prevalere in questa fase storica, ha imposto la convinzione che «il bilancio dello Stato non sia tenuto a funzionare da strumento di governo dell’economia, ma debba soprattutto essere un mezzo tecnico di controllo della spesa, che va semplicemente “tenuto in ordine”». Sul piano della forma di governo si è notato che l’attrazione «delle decisioni di bilancio nella sfera del controllo di costituzionalità potrebbe [ridurre] lo spazio della negoziazione Parlamento-Governo irrigidendo i processi di determinazione dell’indirizzo politico»... (segue)



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