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La fusione di società può essere definita come l’operazione di concentrazione giuridico-economica tra imprese societarie, atta a determinare una vera e propria “crasi” tra due o più società che si uniscono trasferendo l’intero patrimonio alla società di risultato. L’art. 2501 c.c. prevede due tipologie di fusione: la fusione in senso stretto o unione e la fusione per incorporazione. La prima culmina con la costituzione di una nuova società; la seconda determina la sussistenza in vita di una società preesistente (incorporante) ed assorbente le altre, che si estinguono, mercé assunzione di qualsivoglia situazione giuridica di titolarità attiva e passiva delle medesime. Nella prassi, tuttavia, la fusione maggiormente praticata è quella per incorporazione, in ragione del maggior costo che l’unione comporta, atteso che il trasferimento del patrimonio di ciascuna società in via di fusione è assoggettato ad imposta. Autorevole dottrina ha anche fatto riferimento alla cosiddetta “fusione inversa”, che si verifica allorquando una società partecipante venga inglobata dalla partecipata e, in special modo, con riferimento alla holding rispetto a una propria operativa. Tale tesi non è, tuttavia, condivisibile a parere di chi scrive. Anzitutto, infatti, sembrerebbe che detta dottrina muova dal presupposto, quivi ritenuto erroneo, secondo cui la fusione possa ordinariamente aversi soltanto laddove la società incorporanda sia meno facoltosa di quella incorporante. Dipoi, invero, in disparte quanto testé argomentato, parrebbe più opportuno parlare di particolare species di fusione per incorporazione. Tanto premesso, occorre interrogarsi sulla natura giuridica della fusione. Prima della riforma del diritto societario, di cui al D. Lgs. n. 6/2003 (come modificato dal D. Lgs. n. 37/2004 indi dal D. Lgs. n. 310/2004), l’orientamento dottrinario prevalente tendeva ad inquadrare la fusione come una particolare forma di successione mortis causa poiché reputava estinta la società fusa. Anche la giurisprudenza maggioritaria di legittimità era conforme. Del resto, l’art. 2503 bis c.c. definiva letteralmente, in ordine agli effetti della fusione, le società fuse (in senso ampio) come “estinte”. Oggidì – alla luce della nuova formulazione del disposto dell’art. 2503 bis c.c., a cui mente le società coinvolte nell’operazione fusoria sono individuate quali “partecipanti” alla medesima – riprende vigore l’orientamento dottrinario in precedenza minoritario, secondo cui la fusione è connotata dalla modificazione, mercé concentrazione, di due o più entità produttive ai fini della continuazione dell’attività economica attraverso una struttura unica e plasmata mediante unificazione dei rispettivi patrimoni e strutture organizzative. Indi, in buona sostanza, la fusione implica meramente modificazione degli atti costitutivi delle società che ne siano protagoniste. Del resto, la fusione prescinde dalla liquidazione delle società coinvolte... (segue)
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