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NUMERO 5 - 28/02/2018

 Rapporti, sovrapposizioni e interazioni tra UE e sistema regionale italiano

S’intende qui offrire il punto di vista giuslavoristico sul tema delle interrelazioni tra Unione europea e Regioni, portandovi il contributo dell’esperienza di studio ed osservazione del funzionamento delle istituzioni regionali nella prospettiva del Diritto del lavoro. Al riguardo, non si può non partire dalla constatazione di fondo, secondo cui, in effetti, il Diritto regionale del lavoro in Italia non ha incontrato molta fortuna, quanto ad ampiezza dell’area di autonomia normativa, neppure sul versante del rapporto col Diritto sociale dell’Unione europea: oltre ad aver subito, com’è noto, resistenze istituzionali, nella fase di attuazione nell’ordinamento interno, anche da parte del legislatore statale, e ridimensionamenti ad opera dell’interpretazione centralistica dei rispettivi ambiti di potestà legislativa statale e regionale nel settore del lavoro, effettuata dalla giurisprudenza costituzionale. Uno dei principali fattori di limitazione della potestà normativa delle Regioni in materia di lavoro deriva, infatti, proprio dalla circostanza che la disciplina sul lavoro costituisce, per molti versi, normativa di impulso o di derivazione “comunitaria” (si lasci passare l’espressione vintage). Ciò è dovuto alla sostanziale coincidenza, e conseguente sovrapposizione, tra le competenze regionali ex art. 117, co. 3 e 4, Cost. (nella versione novellata dalla l.cost. 18 ottobre 2001 n. 3) – concorrente con lo Stato in materia soprattutto di “tutela e sicurezza del lavoro” (nonché di “previdenza complementare e integrativa” e di “professioni”) e piena-residuale sulla “formazione professionale” – e le competenze assegnate dai Trattati all’Unione europea sulla politica sociale (in specie del lavoro, dell’occupazione e della formazione). Il che produce una inevitabile restrizione del potenziale spazio di intervento normativo delle Regioni nel campo del Diritto del lavoro, in virtù dell’obbligo, anche per queste, di rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, peraltro sancito in Costituzione all’art. 117, co. 1. Da una parte, infatti, la portata della potestà legislativa delle Regioni italiane sul lavoro è stata ridotta dalla Corte costituzionale, rispetto a quanto poteva apparire ad una iniziale lettura del disposto costituzionale, all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo e vigente titolo V della parte seconda della Costituzione – all’originaria impressione, cioè, di un’estensione della relativa sfera, in discontinuità col tradizionale assetto accentrato del Diritto del lavoro – data appunto la congerie di ambiti materiali dell’art. 117 Cost., di competenza legislativa concorrente Stato-Regioni, se non addirittura piena regionale, rilevanti per il Diritto del lavoro. Ricondotti massicciamente il diritto del contratto e del rapporto individuale di lavoro (anche flessibile), e il diritto sindacale (comprensivo della regolazione del contratto collettivo), alla competenza esclusiva statale (per lo più mediante l’utilizzo del criterio della “prevalenza” in favore di materie appartenenti a tale potestà, in primo luogo l’“ordinamento civile”), l’area della “tutela e sicurezza del lavoro” – e quindi, della competenza delle Regioni ripartita con lo Stato – è stata individuata: nel diritto del mercato del lavoro e delle politiche del lavoro e dell’occupazione di livello regionale e locale, limitatamente agli aspetti di “diritto amministrativo del lavoro” (ossia “pubblicistici”, non incidenti sulla disciplina dei contratti-rapporti di lavoro), principalmente concernenti il collocamento e i servizi per l’impiego (e, più in generale, i soggetti e gli strumenti di governo – inclusi programmazione, monitoraggio e verifica – e di gestione del mercato del lavoro), nonché altri specifici istituti, quali gli incentivi alle assunzioni, anche con contratti flessibili, e le misure di sostegno e di promozione dei disoccupati, degli inoccupati e dei lavoratori svantaggiati; e nei profili, parimenti “amministrativi”, della sicurezza sul lavoro (escludendo cioè quelli “privatistici”, riguardanti i diritti e gli obblighi delle parti del rapporto di lavoro). La Corte costituzionale ha, inoltre, assegnato a tale materia concorrente una “valenza finalistica”, sottolineando come essa sia caratterizzata dal perseguimento di uno scopo, ovvero obiettivo, di tutela: da essa è possibile ricavare la funzione “incrementale-migliorativa” del legislatore regionale, volta a predisporre più elevati livelli di protezione del lavoro, rispetto a quelli essenziali fissati dalla normativa statale con funzione di garanzia di base, al di sotto della quale non è possibile scendere. Accanto a questa, la competenza piena-residuale regionale in materia di “formazione professionale” è stata dalla Corte circoscritta alla formazione “pubblica”, esaminando, in particolare, i contratti di lavoro con finalità formativa (in specie, l’apprendistato): mediante la distinzione della formazione professionale esterna (appunto, pubblica) da quella interna all’azienda (impartita dallo stesso datore di lavoro), ricondotta all’“ordinamento civile” (insieme alla disciplina del contratto e del rapporto individuale di lavoro formativo), in quanto rientrante nel sinallagma contrattuale e, pertanto, prevalentemente inerente al rapporto tra datore e lavoratore in formazione. In estrema sintesi, pertanto, la competenza regionale in Italia si incentra sul sistema delle politiche, specialmente attive, del lavoro e della sicurezza dei lavoratori e delle politiche formative pubbliche. Dall’altra parte, tra gli ambiti attribuiti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (d’ora in poi, Tfue) alla competenza normativa dell’Unione nel settore della politica sociale, molti riguardano proprio gli aspetti e istituti del Diritto del lavoro assegnati, nell’ordinamento interno, almeno in parte alla potestà regionale, ossia: il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri e gli orientamenti per dette politiche (art. 2, par. 3; art. 5, par. 2; artt. 9, 145, 146, 147, 149, 150, 151, 156, par. 1); la coesione economica, sociale e territoriale (art. 4, par. 2, lett. b) e c); la formazione professionale (art. 6, par. 1, lett. e); artt. 9 e 156, par. 1; art. 166); la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (artt. 45 e 46), anche con specifico riguardo alla sicurezza sociale (art. 48); l’accesso alle attività autonome e all’esercizio delle professioni (art. 53); il miglioramento dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori; le condizioni di impiego dei cittadini dei Paesi terzi legalmente soggiornanti nel territorio dell’Unione; l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro; le pari opportunità e la parità di trattamento tra donne e uomini in materia di occupazione e impiego, in particolare per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro (art. 153, par. 1; art. 156, par. 1; art. 157, par. 3 e 4). Nell’esercizio di tale articolata competenza in materia di politica sociale, le istituzioni dell’Unione imprimono dettami ai Paesi membri, non solo mediante fonti vincolanti per questi (principalmente direttive, in misura minore regolamenti), ma sempre più con strumenti di c.d. soft law, dotati di un crescente grado di autorevolezza e persuasività politica nei confronti degli Stati (benché non cogenti sul piano strettamente tecnico-giuridico), rispondente al metodo della governance: comunicazioni, raccomandazioni, programmi, orientamenti (il c.d. “Metodo aperto di coordinamento” e, in tale ambito, in particolare la “Strategia europea per l’occupazione” – Seo, attualmente la “Strategia Europa 2020”); e persino semplici missive (basti pensare alla lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet del 5 agosto 2011, per conto del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, il cui contenuto, con indicazione delle misure da adottare, ha costituito la base delle radicali riforme del Diritto del lavoro privato e pubblico italiano dell’ultimo quinquennio). A ciò si aggiungono le restrizioni finanziarie poste dall’Unione europea nei confronti degli Stati membri (e delle loro articolazioni interne), che limitano le risorse anche per azioni di politica del lavoro (e quindi la possibilità economica di apprestare le relative misure), della cui implementazione nelle varie parti del territorio nazionale si è sempre fatto portavoce e garante lo Stato centrale (specie in sede di leggi finanziarie, di stabilità e di bilancio): dalla formulazione delle regole dello strumento del patto di stabilità interno fino all’ulteriore suggellamento nella l.cost. 20 aprile 2012 n. 1. Quest’ultima ha mitigato l’autonomia finanziaria delle Regioni, originariamente ampliata dalla novella del 2001 dell’art. 119 Cost.: inserendo in tale articolo l’obbligo per le Regioni di rispetto dell’equilibrio di bilancio e di osservanza dei vincoli economico-finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea (co. 1, sostituito dall’art. 4, co. 1, lett. a), della l.cost. n. 1/2012); nonché accentrando in capo allo Stato la potestà legislativa sull’“armonizzazione dei bilanci pubblici” (art. 3, l.cost. n. 1/2012, che ha spostato questa materia dalla competenza concorrente Stato-Regione dell’art. 117, co. 3, Cost. a quella esclusiva statale del co. 2, lett. e). Nel settore del lavoro le Regioni italiane subiscono, in definitiva, una delimitazione dell’ambito di potestà normativa “originale-autonoma” ad opera, parallelamente e contemporaneamente, degli altri due principali livelli di produzione giuridica: quello statale, da una parte, suffragato dalla interpretazione applicativa della Corte costituzionale; e quello dell’Unione europea, dall’altra parte, date appunto l’ampiezza dei profili della disciplina di matrice europea e la complessiva pervasività delle indicazioni e degli input comunitari in materia di politica sociale, cui le Regioni sono tenute ad attenersi... (segue)



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