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NUMERO 6 - 14/03/2018

 Crisi del regionalismo e macroregioni

La crisi del regionalismo italiano è un tema che impegna da molto tempo la dottrina così come la politica: dopo l’ondata quasi federalista culminata nelle riforme costituzionali del 2001 le Regioni sembrano avere perso del tutto il loro appeal, giungendo, nella fase attuale, a toccare quello che appare come il punto più basso di credibilità e di fiducia. Questa debolezza è stata di recente aggravata dal fallimento dell’ultimo tentativo di revisione costituzionale, che imprimeva all’ordinamento repubblicano una netta svolta centralista, sulla base di argomenti orientati ad evidenziare l’inadeguatezza delle Regioni a sostenere il peso delle funzioni, soprattutto legislative, che la riforma del 2001 aveva notevolmente arricchito ed ampliato. In effetti, a ben vedere, il regionalismo italiano ha conosciuto una storia molto travagliata, che testimonia come esso sia stato sempre visto quale fattore di crisi dell’ordinamento repubblicano, e come, nelle alterne vicende della sua realizzazione, sia stato sempre connotato da elementi di criticità, pur promananti, di volta in volta, da cause diverse. La scelta regionalista fu il risultato di un articolato dibattito nei lavori della Costituente, ma risultò, nel periodo immediatamente successivo, sopravanzata da ragioni politiche che, di fatto, garantirono una sostanziale continuità con il sistema accentrato pre-repubblicano. Ciò, probabilmente, si ascrive anche all’ambiguità della tradizione culturale che ha connotato l’elaborazione dell’idea regionalista, fin dall’epoca post-risorgimentale in bilico tra la concezione delle regioni come enti amministrativi o come enti propriamente politici. L’assemblea costituente era riuscita a proporre una sintesi del dibattito autonomista, compendiata nella formulazione dell’art. 5, e contrassegnata dalla previsione del pluralismo legislativo che rappresentava una novità assoluta rispetto alla precedente storia istituzionale. La fase della istituzione delle Regioni ordinarie, 20 anni dopo, vede però le Regioni strutturarsi come enti per lo più di amministrazione, chiamate a svolgere funzioni trasferite dallo Stato utilizzando una finanza sostanzialmente derivata. In un simile contesto, non solo le Regioni non riescono a veicolare una vera e propria innovazione delle funzioni già statali, ponendosi come soggetti catalizzatori di vere riforme, ma, addirittura, finiscono con l’aggravare il peso burocratico della macchina pubblica, cui viene aggiunto un ulteriore elemento di stratificazione di uffici e competenze. Le potestà legislative sono fortemente limitate, e ciò impedisce alle Regioni di perseguire politiche proprie; lo Stato d’altronde, in questa fase, manifesta una spiccata tenenza invasiva su tutte le funzioni regionali, alimentata dal vessillo dell’interesse nazionale. Gli anni ’90 del secolo scorso vedono, invece, l’inaugurazione di un’opposta tendenza: il contesto politico nazionale, percorso da eccessi di ideologismo autonomista, è tale da recepire le suggestioni verso teorie federaliste o pseudo-federaliste, e ciò dà impulso ad un importante processo di decentramento, prima realizzato sul versante delle funzioni amministrative, e, successivamente, esteso anche alla legislazione e alla finanza. Anche questa fase, però, non ha segnato punti significativi a favore del regionalismo italiano: le riforme del Titolo V, infatti, originate dalla necessità di rispondere agli eccessi di quella propaganda politica che faceva perno sulla necessità di riorganizzare la Repubblica in senso federale, non sono esenti da elementi di confusione e incertezza; ciò ha consentito che si raggiungessero esiti interpretativi delle nuove disposizioni costituzionali nettamene contraddittori rispetto allo spirito della riforma, e, alla fine, ha determinato una nuova fase di riflusso centralista. Il risultato di questi processi è una costituzione vivente, fatta dalle disposizioni costituzionali così come interpretate nella glossa fornita dalla Corte costituzionale, che appare discostarsi notevolmente dal testo approvato nel 2001. Ciò appare del tutto evidente sotto plurimi profili: la potestà legislativa non è ripartita secondo il testo dell’art. 117 Cost., non vi è stato un processo complessivo di redistribuzione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118; l’autonomia finanziaria risulta compressa dalle esigenze della crisi, la potestà statutaria in materia di forma di governo, di cui all’art. 123, può muoversi solo entro una griglia di opzioni anch’esse incasellate nei limiti precisi definiti dal giudice delle leggi. Sullo sfondo di un riparto costituzionale contrassegnato da incertezze, lacune, e imprecisioni, Stato e Regioni hanno continuato a perseguire una impostazione di tipo rivendicazionista, imperniata sulle rispettive pretese ad esercitare competenze o pezzi di competenze, o ad accaparrarsi singoli oggetti di potestà legislativa. Questo atteggiamento, però, si è rivelato del tutto inefficace sul piano degli obiettivi di rilancio della dimensione autonomistica ordinamentale, e inefficiente sul piano dello spreco di attività legislativa e giurisdizionale che ha comportato: il conflitto continuo ha danneggiato la qualità della legislazione regionale e statale, ponendola sotto il giogo continuo delle impugnazioni alla Corte costituzionale, con risultati che, alla lunga, evidenziano, sotto questi profili, una complessiva mancanza di perspicacia dei due legislatori... (segue)



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