
Secondo un’opinione ricorrente e consolidata la garanzia dei livelli “essenziali” di assistenza dovrebbe assicurare “un’uniformità territoriale” nel godimento del diritto alla salute: la necessità che il contenuto del diritto alla salute sia garantito sull’intero territorio nazionale richiederebbe l’uniformità nell’erogazione di quei livelli delle prestazioni che ne costituiscono il contenuto irrinunciabile. Questa convinzione mette in relazione (necessaria) “essenzialità” ed “uniformità” delle prestazioni ed è alimentata da alcune scelte normative che si sono susseguite nel tempo e che hanno rappresentato delle tappe significative dell’evoluzione del servizio sanitario nazionale. A fronte della propensione del settore sanitario al pluralismo e al decentramento, derivante dalla stessa natura “prestazionale” del diritto sociale alla salute, che non può prescindere da un assetto istituzionale plurale e da un’organizzazione capillare e ramificata del servizio pubblico, occorre domandarsi come tali caratteri debbano conciliarsi con le istanze unitarie perseguite dalle politiche sanitarie senza che ciò vada a detrimento dell’effettività della garanzia del diritto alla salute. Nella legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, i livelli delle prestazioni sanitarie non venivano originariamente qualificati come “uniformi”. La legge del 1978 attribuiva infatti al legislatore statale, in sede di approvazione del Piano sanitario nazionale, il compito di fissare «i livelli delle prestazioni sanitarie che devono essere, comunque, garantite a tutti i cittadini» (art. 3, comma 2). Il legislatore non si spingeva dunque a pretendere l’uniformità delle prestazioni, ma si limitava a decretare l’indisponibilità (e, dunque, l’essenzialità) di alcune prestazioni sanitarie attraverso l’espressione “comunque”. Questa affermazione era conseguente alla definizione del Servizio sanitario nazionale come il «complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio» (art. 1, comma 3), sancendo in tal modo l’universalità nell’accesso alle cure e l’uguaglianza (la non discriminazione) in occasione della loro erogazione. Tra gli obiettivi del Servizio sanitario nazionale, l’art. 2, comma 2, lett. a), includeva, altresì, quello di superare gli «squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del paese», in ossequio all’impego della Repubblica, posto dall’art. 3 della Costituzione, di realizzare l’uguaglianza sostanziale delle persone. Le esigenze di uniformità erano perseguite in primo luogo all’art. 4 con l’attribuzione alla legge dello stato del compito di dettare “norme dirette ad assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi per tutto il territorio nazionale” e di stabilire le relative sanzioni penali – in modo particolare in materia di inquinamento dell'atmosfera, delle acque e del suolo; di igiene e sicurezza in ambienti di vita e di lavoro; di omologazione, per fini prevenzionali, di macchine, di impianti, di attrezzature e di mezzi personali di protezione; di tutela igienica degli alimenti e delle bevande; di ricerca e sperimentazione clinica e sperimentazione sugli animali; di raccolta, frazionamento, conservazione e distribuzione del sangue umano -, in secondo luogo all’art.10, con la gestione unitaria della tutela della salute “in modo uniforme sull'intero territorio nazionale mediante una rete completa di unità sanitarie locali”, ed in terzo luogo all’ art. 51, con la ripartizione delle risorse del fondo sanitario nazionale tra tutte le regioni sulla base di indici e di standard tendenti a garantire i livelli di prestazioni sanitarie “in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, eliminando progressivamente le differenze strutturali e di prestazioni tra le regioni”... (segue)
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