
In primo luogo, cosa intendiamo – e si tratta di una definizione convenzionale- per élites? Intenderei le élites come “ambiti di eccellenza” nei vari settori della società (questo mi sembra il senso della impostazione paretiana), i cui appartenenti hanno coe distintivi tre elementi: merito, conoscenza, capacità di guidare e al tempo stesso di porsi al servizio della società nel proprio ambito di appartenenza. L’élite –ipocrisie del politically correct a parte- presuppone un’identità che si risolve nell’appartenenza; ma non nell’appartenenza quasi dominicale o familiare a un gruppo, quanto piuttosto nell’appartenenza a una comunità –sia essa una formazione sociale o un apparato istituzionale- che, in quanto tale, assume una precisa responsabilità nell’ambito della società. Se viene meno uno dei tre elementi, se l’appartenenza si risolve in logiche familiste, se l’élite si chiude, essa cessa di essere élite per divenire casta. Il rapporto tra casta ed élite è centrale nella riflessione sulle élites politiche e amministrative; ma esso è generalmente affrontato in termini a dir poco approssimativi, che portano all’identificazione di ciascuna élite con la “casta che frena il Paese e quindi da abbattere”; trasformando i rapporti istituzionali, a livello nazionale o internazionale, in un’ambigua rete di conoscenze, se non di malaffare, il cursus honorum in un estratto del casellario giudiziale; i riconoscimenti istituzionali nel frutto di intrighi, complicità, o quanto meno di comunanza di interessi. Una impostazione siffatta mina alla radice l’esistenza stessa di una “classe dirigente”, per sfociare in una impostazione “demagogica” estranea alle concezioni tradizionali di democrazia, della quale tali ragionamenti, fondati essenzialmente sull’istigazione all’invidia sociale, costituiscono la forma degenerativa in senso aristotelico della democrazia. Un Paese serio, per contro, deve porsi il tema della formazione di una classe dirigente che “peschi” nelle élites del Paese. E quindi il tema stesso delle élites e del loro ruolo di una democrazia moderna. E’ significativo al riguardo quello che afferma Aldo Cazzullo nell’analizzare il fenomeno Macron: la ricerca del Macron italiano è destinata a fallire perché “la Francia ha un establishment, un sistema, un’élìte; l’Italia no”…. “in Francia esiste un forte sentimento antisistema…però il sistema esiste”. Per contro, è vero che le élites, per porsi come classe dirigente, devono conservare i tre elementi identitari che abbiamo prima ricordato –conoscenza e merito) sintetizzabili in “competenza”), logica di servizio- senza i quali l’élite si chiude in una autoreferenzialità “insulare” e realmente si trasforma in casta, incapace di servire il Paese ma destinata anche inevitabilmente, prima o poi, a dissolversi. Il “riconoscimento” delle élites come tali richiede che queste sappiano rapportarsi alle esigenze della società: devono essere “al servizio” della società e non crogiolarsi nella convinzione, che spesso è pura credenza e quindi illusione, di essere indispensabili; devono essere consapevoli che dall’approccio “umile”, cioè “aperto” alle cose e alla società in cui si opera, deriva la propria autorevolezza e, quel che più conta, la propria legittimazione, che viene sempre dagli altri, mentre dall’approccio autoreferenziale e di eccessiva consapevolezza del proprio ruolo deriva al più un senso di “autorità” che il più delle volte finisce con il trovare riconoscimento solo all’interno del gruppo. Ciò che consente a una élite, o sedicente tale, di essere classe dirigente sono due elementi: progettualità e assenza di autoreferenzialità. Il primo dovrebbe essere soprattutto della politica: e progettualità vuol dire avere il respiro della storia, non l’affanno della cronaca; altrimenti la politica diviene “priva di passato, di memoria, e quindi, schiacciata com’è sul presente, non offre futuro” L’autoreferenzialità è per contro un virus che colpisce più o meno consapevolmente tutte le élites… (segue)
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