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NUMERO 18 - 26/09/2018

 Il valore del precedente: attuale dimensione del diritto 'vivente'

Il tema del precedente e del suo ruolo nell’esperienza giuridica italiana di recente ha assunto uno spazio crescente nel dibattito, e non soltanto degli addetti ai lavori. Soprattutto esso sembra essersi affrancato dall’ambito specifico – anche se irrinunciabile – della riflessione dei cultori del processo civile, consentendo  che all’elaborazione di una “teoria del precedente” – ammesso che ne sia possibile una – partecipino sempre più frequentemente studiosi di teoria generale, (del processo e non), cultori del diritto sostanziale, e, a vario titolo, economisti e sociologi. Ciò ha una giustificazione precisa e comprensibile nella misura in cui la questione non è soltanto della “nomenclatura” delle regole processuali della decisione più o meno vincolante; senza dubbio ai processualisti va riconosciuto il merito indiscusso di aver favorito un simile dibattito con il proprio fondamentale apporto, soprattutto in tema di ricorso per cassazione, in senso ampio, dalla disciplina della sua formulazione c.d. ammissibile, a quella della portata oggettiva e soggettiva del giudicato. Ma credo che siano maturi i tempi perché una simile riflessione si estenda alle problematiche più ampie delle fonti del diritto o – per meglio dire, dei suoi formanti –, della distinzione tra regole e norma giuridica, della “certezza” del diritto e perché, in ultima analisi, si finisca per approdare al quesito fondamentale sulla dimensione attuale del diritto in un contesto che vede l’affievolimento dei suoi connotati tradizionali – territorialità, precettività ed effettività –. La stessa espressione “diritto vivente”, non soltanto è tornata notevolmente in auge dopo un periodo, per dir così, di affievolimento, ma ha visto il fiorire di una molteplice teorizzazione e, quel che più conta, ha ricevuto, in una qualche maniera, una sua formalizzazione legislativa con la l. n. 69 del 2009, che, nell’ apportare le ormai cicliche, scoordinate e talora contraddittorie modifiche al processo civile, ha introdotto nell’art. 118, primo comma, disp. att. c.p.c., la previsione che la motivazione della sentenza “consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle regioni giuridiche delle decisioni, anche con riferimento ai precedenti conformi”. Ecco allora che diventa pressante l’interrogativo non sulla sola nozione di diritto vivente, ma sulla sua portata attuale. Come è stato autorevolmente scritto di recente, con l'espressione diritto vivente si indica un «sistema di precetti che si impongono ai consociati, in un determinato momento storico, in forza di un operante rapporto tra testo e contesto, essendo il contesto caratterizzato anche dalla prevalente interpretazione che di quel determinato testo è stata riconosciuta». Per troppo tempo si sono registrate resistenze – direi, in primo luogo culturali – di stampo neopositivista, ad accettare l’idea dell’equilibrio inevitabilmente instabile del “dato normativo” sottoposto al “cimento” applicativo. Né sembra convincere la posizione di chi, prendendo atto della crisi delle fonti del diritto, si spinge, pessimisticamente, a postulare l’eclissi in sé del diritto (e in particolare del diritto civile). Né probabilmente è appagante – e sempre senza una prospettiva di respiro – assumere l’inevitabilità dell’“incertezza” del diritto o, se si preferisce, abbandonarsi all’“incalcolabilità” del diritto, approdo tipico di coloro che, smarrite le certezze date dal positivismo formalista, si sentono all’improvviso persi; peggiore ancora forse può risultare la tesi secondo cui la sola “calcolabilità” del diritto è quella di stampo economico, funzionale al rafforzamento del mercato, dove la “certezza” del diritto si risolve nella valutazione ponderata dei rischi dell’incertezza, ridotti il più possibile a “variabile” neutra. Un simile contesto è ancora più delicato ove si consideri, si è detto, la metamorfosi delle prerogative tradizionali degli ordinamenti statali per effetto della globalizzazione, della circolazione dei modelli giuridici, della pervasività del diritto (in specie, privato) europeo. Al deficit crescente di precettività ed effettività dell’ordinamento – inteso nei termini in cui lo abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli – non si può rispondere con la mera moltiplicazione delle regole di dettaglio; la disciplina giuridica di Internet – e le debolezze del diritto tradizionale che essa mette a nudo, sino al limite della sua impotenza – dimostra che vi è forse meno bisogno, appunto, di regole, ed invece necessità del ritorno del Diritto, inteso come sintesi di interessi filtrati alla luce di opzioni valoriali. Il tema del richiamo ai valori, infatti, fa da sfondo alla riflessione in essere. Non si tratta di un tentativo di riproporre ipostasi, che si risolverebbero in un fattore di chiusura. Viceversa, è indispensabile comprendere che, come è stato rilevato, la decisione in base a “razionalità sussuntiva” non è più in grado di fornire certezze, o quantomeno, non ne offre di più di quante ne può assicurare la decisione radicata sui valori… (segue)



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