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NUMERO 23 - 05/12/2018

 Crisi della rappresentanza politica e 'Stato giurisdizionale'

Tra i termini indicati nel titolo di questa succinta riflessione parrebbe intrattenersi un rapporto di causa ed effetto; e così, invero, è per una cospicua schiera di studiosi che vedono nell’una il principale, se non pure l’esclusivo, fattore che ha portato all’avvento del secondo. A mia opinione, questa conclusione appare essere approssimativa e sbrigativa, comunque vera solo in parte. Perché è innegabile che la crisi suddetta vi sia, anche se va spiegata nelle sue forme e nei limiti entro i quali si manifesta; essa, però, non è la sola causa determinante il secondo, il quale peraltro richiede esso pure di essere precisato nei suoi complessivi contorni. Nessuno, infatti, nega che il ruolo dei giudici sia sensibilmente cresciuto e che tali operatori risultino gravati di responsabilità un tempo inimmaginabili. Di qui però a dire che lo Stato si connota nella sua essenza per il modo con cui si esprime la giurisdizione, a tutti i livelli nei quali si svolge, ne corre. In generale, credo che, specie nella presente congiuntura politico-istituzionale, si debba rifuggire dal far ricorso a formule eccessivamente semplificanti e, a conti fatti, forzose, che riducono una realtà internamente composita, ricca di sfaccettature e di elementi eterogenei, ad una sola sua, seppur rilevante, espressione, una realtà della quale si finisce dunque col dare un’immagine appiattita e – a dirla tutta – culturalmente rozza. A mettere in crisi la rappresentanza concorrono plurimi ed eterogenei fattori. Come si è fatto da molti notare, v’è in primo luogo il lento e sofferto processo di democratizzazione degli ordinamenti di tradizioni liberali, che ha avuto la sua spinta maggiore con l’allargamento del suffragio, fino a pervenire alla sua connotazione come universale, che ha portato ad una crescita esponenziale della domanda sociale mettendo allo stesso tempo a nudo l’incapacità dei rappresentanti di farvi fronte in modo adeguato. È questa una vicenda, peraltro – come si sa – ampiamente studiata, che disvela un autentico ossimoro costituzionale: la crescita della rappresentanza ha accompagnato e sorretto il sofferto processo di democratizzazione dell’ordinamento ma quest’ultima, a conti fatti, si è rivoltata contro quella, mettendone a nudo le strutturali e ad oggi non ripianate (e, ad esser franchi, problematicamente ripianabili) carenze. Una vicenda, poi, che ha segnato l’intera parabola dei partiti politici, ponendosi a base sia della loro affermazione quali partiti di massa e sia pure del loro declino. Il quadro che abbiamo oggi sotto gli occhi appare assai composito, esibendo una varietà di elementi connotati da estrema mobilità ed opacità, sì da rendere assai disagevole e persino azzardato il tentativo di darne una nitida e in tutto fedele descrizione. Il vero è che seguitare oggi a discorrere, come un tempo, di un “sistema” dei partiti appare forzato e improprio ove si convenga che il sintagma evoca un’idea di stabilità ed interna armonia di cui non si ha alcun riscontro. Nessun dubbio che i partiti seguitino ad operare e a lasciare un segno della loro ingombrante presenza nella vita delle istituzioni; sono tuttavia soggetti a continue e profonde trasformazioni strutturali, testimoniate dalle frequenti scomposizioni e ricomposizioni alle quali fanno da specchio etichette viepiù originali ma – dove più dove meno – inadeguate ad evocarne la identità (la banalità – tratto negativo peraltro risalente – di molti nomi rende pressoché impossibile ricavare da essi l’orientamento politico di cui ciascun partito vuol farsi portatore e, perciò, la sua distinzione rispetto agli altri)… (segue)



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