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NUMERO 2 - 23/01/2019

 La giurisprudenza costituzionale italiana in materia elettorale

Negli anni più recenti, la Corte Costituzionale ha radicalmente modificato il proprio orientamento circa la materia elettorale. Fino a pochi anni fa si limitava, infatti, a riconoscere la piena discrezionalità del legislatore, motivandola sulla base del fatto che la nostra Costituzione si limita a ribadire i principi tipici dell’esercizio del diritto di voto attivo, la personalità, l’uguaglianza, la libertà e la segretezza, mentre nulla afferma sulla formula elettorale che il legislatore debba assumere, né a livello locale né a livello nazionale. In tal modo la Corte non ha fatto altro che riconoscere l’orientamento generale presente all’interno dell’Assemblea Costituente. È sufficiente rileggerne i verbali per rendersi conto che, pur nel generale favore verso la formula proporzionale, i costituenti preferirono non irrigidire il sistema elettorale in una norma costituzionale, lasciando al legislatore futuro la possibilità di adottare formule maggioritarie o miste. Nell’arco di pochi anni, invece, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni contenute nelle leggi elettorali della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Nel 2014 è stato il turno del meccanismo premiale contenuto nella legge 21 dicembre 2005, n. 270, un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi, attribuito alla Camera dei deputati al partito o alla coalizione che avessero ottenuto la maggioranza relativa dei voti a livello nazionale, senza il raggiungimento di una soglia minima di voti validi. Pur perseguendo l’obiettivo costituzionalmente legittimo della governabilità, infatti, una disciplina premiale del genere “rovescia la ratio della formula elettorale [proporzionale] prescelta dallo stesso legislatore del 2005”, causando così “una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare […] sede esclusiva della «rappresentanza politica nazionale»”. L’illegittimità veniva rilevata anche per la disciplina premiale relativa all’elezione del Senato. Infatti, nel rispetto dell’articolo 57 della Costituzione, che impone l’elezione su base regionale della seconda Camera, la legge 21 dicembre 2005, n. 270, disponeva l’attribuzione di un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi di ogni Regione al partito o alla coalizione che avessero conquistato la maggioranza relativa nella Regione stessa. Ciascun premio regionale si sarebbe poi sommato a tutti gli altri per determinare la composizione definitiva del Senato. Una disciplina così congegnata risultava manifestamente irragionevole perché, oltre ad essere innestata in una formula elettorale proporzionale, non era neppure idonea ad agevolare la governabilità. Infatti, la maggioranza del Senato finiva per essere “il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto […] su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento”. Tre anni dopo, nel 2017 la Corte è stata chiamata a decidere sulla legittimità di alcune norme della legge 6 maggio 2015, n. 52, emanata appositamente per sostituire la legge elettorale del 2005, menomata dalle censure della Consulta. La nuova disciplina era limitata all’elezione dei membri della Camera dei Deputati, dato che il Senato, in virtù di una parallela riforma costituzionale, si pensava non sarebbe più stato eletto direttamente dal corpo elettorale. La legge consisteva in un sistema elettorale proporzionale comprensivo di un premio di maggioranza del 55% dei seggi, attribuito alla lista di partito, e non più alla coalizione, che avesse raggiunto la soglia minima del 40% dei voti validi. Nel caso in cui nessuna lista avesse raggiunto tale soglia, si sarebbe proceduto ad un secondo turno di ballottaggio fra le due liste più votate per l’attribuzione del premio. La decisione del 2017 non è stata altro che un’applicazione del principio formulato pochi anni prima. Infatti, la Consulta, pur considerando legittima la soglia minima prevista per l’attribuzione del premio al primo turno, ha censurato il turno di ballottaggio in quanto concepito come una prosecuzione del primo turno che sarebbe servita a individuare la lista vincente. Una disciplina dai profili maggioritari come questa, infatti, “non cancella la logica prevalente della legge, fondata su una formula di riparto proporzionale dei seggi”. In tal modo, una lista che avesse ottenuto un consenso esiguo al primo turno, accedendo al ballottaggio, avrebbe potuto anche raddoppiare o triplicare i propri seggi. Ne derivava una compressione della rappresentatività illegittima perché manifestamente irragionevole. Dal breve esame del contenuto delle due decisioni emerge, in maniera evidente, il nuovo orientamento giurisprudenziale prima annunciato. Sussiste ancora la piena e massima discrezionalità del legislatore nell’adozione della formula elettorale. Tuttavia, ciò non impedisce al giudice delle leggi di valutare la ragionevolezza delle norme elettorali che siano sottoposte al suo scrutinio. In particolare, gli strumenti che correggano il riparto proporzionale dei seggi, come un premio di maggioranza, un secondo turno di ballottaggio o una clausola di sbarramento, non devono causare una compressione del principio della rappresentatività delle assemblee elettive che appaia eccessiva e, perciò, manifestamente irragionevole. In sintesi, una legge elettorale proporzionale corretta deve riuscire a contemperare gli opposti valori della rappresentatività delle Camere e della governabilità del Paese. Quest’ultima viene catalogata dalla Corte come un interesse di rango costituzionale. Le disposizioni elettorali correttive, perciò, possono legittimamente agevolarne il raggiungimento. Tuttavia, il legislatore non può dimenticare il fatto che le assemblee legislative rimangono la sede della rappresentanza politica nazionale ai sensi dell’articolo 67 della Costituzione. È palese la portata rivoluzionaria di questa svolta giurisprudenziale, con la quale la Corte è entrata in un ambito nel quale riuscire a discernere fra un giudizio politico sulla norma e una valutazione giuridica della stessa è un’operazione piuttosto ardua. Molto è stato scritto al riguardo, soprattutto in merito all’ammissibilità della questione sollevata dalla Corte di Cassazione. È pacifico, infatti, che la Consulta abbia deciso di ignorare gli stringenti requisiti previsti nell’ambito del giudizio incidentale portando come motivazione il fatto che una legge fondamentale per il funzionamento del sistema democratico del Paese non possa sottrarsi al suo controllo di costituzionalità. Pari interesse hanno suscitato in ambito accademico i particolari effetti della decisione del 2014, che non si sono estesi alla validità delle elezioni tenutesi nel 2006, nel 2008 e nel 2013 né ai provvedimenti presi dalle Camere elette in virtù di tali consultazioni. Essi sono stati considerati dalla Consulta come rapporti esauriti e, pertanto, esclusi dalla retroattività dell’effetto di annullamento derivante dalla sua dichiarazione di incostituzionalità. Ciò ha fatto sì che fosse posta un’attenzione minore sul principio di ragionevolezza della legge. Le decisioni viste, quando affermano che la formula elettorale è pur sempre censurabile quando risulti manifestamente irragionevole, fanno riferimento a due decisioni precedenti, la 107 del 1996 e la 242 del 2012, nelle quali la Corte aveva già operato una valutazione sulla ragionevolezza della norma in materia elettorale. Obiettivo di questo lavoro è, perciò, analizzare questi due precedenti e comprendere così se la Corte, nell’arco di questi ultimi venti anni, abbia elaborato dei requisiti minimi di ragionevolezza che ogni disciplina elettorale, comunale, regionale e nazionale, debba rispettare. Se tali requisiti non fossero desumibili dal raffronto di queste pronunce, acquisterebbe sempre più forza il dubbio secondo cui la Consulta si sia abbandonata a giudizi politici nelle decisioni sulle questioni di legittimità che le sono state sottoposte… (segue)



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