
La Corte Costituzionale ha deciso con sentenza n. 20 del 2019 la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Laziodell’art. 14 commi 1-bis e 1-ter del decreto legislativo 14 marzo 2013, n.33. Si tratta – com’è noto – della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. La Corte ha dichiarato illegittima la disposizione che estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici. L’obbligo rimane in piedi solo per i dirigenti che ricoprono incarichi apicali. Il decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 è intervenuto a modificare il testo originario del d.lgs. n.33 del 2013 prevedendo – fra l’altro – la pubblicazione dei dati anche per i titolari di incarichi dirigenziali. In altri termini, la nuova disposizione non si limitava a chiedere di rendere visibili la dichiarazione dei redditi e dello stato patrimoniale soltanto “ai titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo di livello statale, regionale o locale” ma la estendeva anche alla dirigenza pubblica, con riferimento all’interessato, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Nel caso di diniego da parte del coniuge o dei parenti, con la previsione che venisse data evidenza al mancato consenso. La legge ricollegava alla mancata comunicazione di tali documenti una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del singolo dirigente. Il giudice remittente censura la disposizione nella parte in cui stabilisce che: “le pubbliche amministrazioni pubblichino, per i dirigenti, i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con i fondi pubblici” (art.14, comma 1, lettera c); “le dichiarazioni e le attestazioni, ovvero la dichiarazione dei redditi e quella concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società, anche in relazione al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove essi vi acconsentano, dovendosi in ogni caso dare evidenza al mancato consenso” (art.14, comma 1, lettera f). Inoltre, il giudice a quo riteneva che andasse censurata anche la disposizione in cui si prevede che i pubblici uffici pubblichino sul proprio sito istituzionale “l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da ciascun dirigente a carico della finanza pubblica” (art. 14, comma 1 –ter). Con riferimento a quest’ultima questione la Corte Costituzionale non entra nel merito, essendo dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza; in questo caso il giudice remittente non è chiamato ad applicare nel giudizio in corso tale disposizione; manca, dunque, il presupposto dell’incidentalità… (segue)
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