
Dopo una prima breve proroga del termine previsto dall'art. 50, par. 3, TUE disposta dal Consiglio europeo, di intesa con il Regno Unito, lo scorso 22 marzo, una seconda e relativamente più lunga proroga è stata disposta l’11 aprile 2019. La prima decisione stabiliva una proroga sino al 22 maggio 2019 nel caso in cui la Camera dei Comuni britannica avesse approvato l'accordo di recesso entro il 29 marzo 2019. Laddove ciò non fosse avvenuto, il Consiglio europeo acconsentiva ad una proroga sino al 12 aprile 2019, chiedendo al Regno Unito di indicare, prima di tale data, il percorso che avrebbe ritenuto opportuno seguire, in vista di un suo esame e di una nuova decisione da adottare in tempo utile ad evitare un’uscita dello Stato recedente dall’Unione europea senza deal. La seconda decisione proroga il termine di cui all’art. 50, par. 3, TUE sino al 31 ottobre 2019, altresì disponendo che la decisione cesserà di «applicarsi il 31 maggio 2019 nel caso in cui il Regno Unito non abbia tenuto le elezioni del Parlamento europeo conformemente al diritto dell'Unione e non abbia ratificato l'accordo di recesso entro il 22 maggio 2019» (corsivi aggiunti). Le date fissate per l’uscita con e senza accordo non sono casuali, nella prima così come nella seconda decisione. Il 12 aprile è stato individuato come deadline per consentire al Regno Unito di organizzare le elezioni del Parlamento europeo nel rispetto delle proprie norme costituzionali e, altresì, di quelle dell’Unione. L’uscita (con deal il 22 maggio in base alla prima decisione di proroga; o rectius, ormai, in base alla seconda decisione di proroga) con approvazione dell’accordo di recesso entro il 22 maggio (data che Theresa May conta ancora di poter rispettare) consentirebbe al Regno Unito di non partecipare alle elezioni del Parlamento europeo, che pur esso si è impegnato a organizzare: in tal modo si eviterebbe di incorrere nel rischio di un voto popolare che “faccia le veci” di un secondo referendum sulla Brexit (o, volendo, “di un pre-referendum, o preferendum”) con esiti opposti al primo (seppur magari con le stesse percentuali del referendum del 23 giugno 2016, ma ribaltate a favore del Remain) in un momento in cui il Governo fatica a trovare un accordo interno al Parlamento di Westminster sull’uscita dall’Unione. Al contempo, si eviterebbe all’Unione di affrontare una serie di problemi legati alla elezione dei “membri britannici” (ovvero dei candidati nelle liste britanniche) al Parlamento europeo e al loro coinvolgimento in primis nel procedimento di nomina della nuova Commissione ex art. 17, par. 7, TUE (v. infra, par. 3). L’uscita senza deal il 31 maggio 2019 è chiaramente prevista come “sanzione” al Regno Unito in caso di mancato rispetto degli obblighi che si è assunto (v. infra, par. 2) nel momento in cui ha ottenuto la seconda proroga. Infine, l’uscita (auspicabilmente) con deal il 31 ottobre 2019 consentirebbe alla nuova Commissione – che si insedierà il prossimo 1° novembre – di essere composta da 27 commissari (senza dunque la presenza anche di un commissario britannico). Non è escluso, peraltro, che anche a siffatta data ci si avvicini senza alcun passo avanti utile e che, pertanto, il Regno Unito presenti una ulteriore richiesta di proroga. Spetterà ancora una volta al Consiglio europeo decidere, all’unanimità, se concederla: certo è che, seppur chiara è la ratio della proroga al 31 ottobre, forse sarebbe stato più opportuno (a fronte delle incapacità ad oggi dimostrate dal Governo britannico) e ragionevole (anche per la credibilità e l’immagine dell’Unione) disporre sin da subito una proroga più estesa… (segue)
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