
Sono trascorsi quasi due anni dall’entrata in vigore della legge 30 novembre 2017 n. 179, adottata sul finire della XVII Legislatura con lo scopo di far acquistare una più precisa dimensione normativa alla collaborazione di giustizia comunemente definita whistleblowing. I lineamenti dell’istituto sono fin troppo noti ed è appena il caso di ricordarli: si tratta della tutela del comportamento di chi, in qualità di lavoratore subordinato o comunque di soggetto obbligato a mantenere il segreto sui fatti da lui conosciuti a causa del suo rapporto di servizio, rompe il segreto al fine di denunciare un illecito, commesso da altri dipendenti o titolari di poteri di amministrazione, ottenendo in cambio il diritto a una speciale protezione. Come altri mezzi di contrasto all’illegalità fondati sulla salvaguardia dei diritti del collaboratore – si pensi alle norme che proteggono i testimoni di giustizia nella legislazione antimafia (legge 11 gennaio 2018, n. 6) – anche la prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione può, dunque, contare sull’insieme delle garanzie prestate al dipendente meritevole di aver “lanciato l’allarme”. Non sarebbe tuttavia corretto ritenere che il fondamento giuridico dell’istituto sia nuovo e di pura creazione legislativa. Una novità è certamente da ravvisare nelle “tecniche” di tutela del whistleblower e, di conseguenza, nel sistema delle sanzioni applicabili al datore di lavoro in caso di difettosa osservanza delle relative modalità. Le radici dell’istituto si trovano però nell’interazione – tante volte illuminata dalla giurisprudenza del lavoro – tra il diritto di critica del lavoratore (art. 1 St. lav. e art. 42 comma 1 D.lgs. n. 165 del 2001) e i suoi obblighi di riservatezza (art. 2105 c.c.), o, più precisamente, tra la libertà di espressione del lavoratore, che annovera tra le proprie funzioni quella di denunciare, all’interno dell’impresa e/o pubblicamente, fatti illeciti conosciuti per causa di servizio, e il diritto del datore di lavoro a che il medesimo dipendente mantenga il silenzio, così da non ledere la reputazione dell’impresa, in adempimento del suo dovere di fedeltà. Il nocciolo della questione rimane l’equilibrio tra due diritti che trovano la loro fonte nel contratto di lavoro; dunque il whistleblowing “è” l’esercizio di un diritto, al quale si ricollega, naturalmente, anche una responsabilità. La segnalazione di illecito, infatti, è limitata da un principio fondamentale di “continenza”, suddiviso in una serie di corollari: l’essere, la denuncia, circoscritta ad una verità, anche se incolpevolmente putativa (continenza sostanziale); il rientrare in modalità espressive rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui (continenza formale); il rispondere ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione (continenza materiale). L’angolazione “amministrativistica” apertasi dopo le leggi n. 190 del 2012 e n. 179 del 2017 tende a diversificare fortemente l’istituto, anteponendo un fine politico di prevenzione della corruzione che trasforma il whistlewblower in uno strumento oggettivo di affermazione di quello scopo (enforcement). Come si vedrà, la continenza “materiale” viene infatti sintetizzata da un confronto tra l’interesse individuale del whistleblower e l’interesse pubblico o generale alla “integrità della pubblica amministrazione”… (segue)
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