
Che vi siano fondate ragioni per ridurre il numero di parlamentari non è in discussione. Basta guardare alla dimensione dei Parlamenti (bicamerali) nel mondo per rendersi conto che il nostro, con i suoi 945 componenti, è secondo solo al Parlamento britannico, che – per quanto rappresenti un unicum nel suo genere – di membri ne conta addirittura 1443. Se consideriamo i Parlamenti di Stati assimilabili all’Italia per estensione territoriale e/o numero di abitanti, solo quello francese – con 925 membri – si avvicina al Parlamento italiano; il Parlamento tedesco ne ha 778; quello spagnolo 615. Fuori dall’Europa la Thailandia, con oltre 68 milioni di abitanti, ha 750 componenti. Se poi guardiamo ai Paesi molto più grandi dell’Italia dal punto di vista geografico e/o demografico, il numero dei nostri parlamentari appare davvero esorbitante: il Parlamento dell’India – 1 miliardo e 297 milioni di abitanti – ha 790 membri; quello del Giappone – 126 milioni di abitanti – 710 membri; quello del Messico – 125 milioni di abitanti – 628 membri; quello della Russia – 142 milioni di abitanti – 620 membri; quello del Brasile – 209 milioni di abitanti – 594 membri; il Congresso degli Stati Uniti d’America – 329 milioni di abitanti – 535 membri. Non è dunque un caso che tutte le proposte di revisione costituzionale discusse o votate dalle Camere a partire dalla IX legislatura abbiano contemplato la riduzione del numero dei parlamentari. E tuttavia – qui sta la peculiarità della previsione odierna – è la prima volta che si propone un taglio fine a sé stesso, ossia un mero intervento quantitativo sul numero dei componenti delle Camere che non sia inquadrato in un più ampio disegno di riassetto del bicameralismo e della forma di governo… (segue)
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