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NUMERO 4 - 10/02/2021

 Intervento sul Financial Times del 25 marzo 2020: 'we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly' (con traduzione)

La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.
Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.
La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.

Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania soltanto una quota fra il 6 e il 15 per cento delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati dalle entrate fiscali. Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.

La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.

Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.

Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.

Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sottoforma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.

Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.

Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.

O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.

I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.

Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.

Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.

La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.


VERSIONE ORIGINALE 

The coronavirus pandemic is a human tragedy of potentially biblical proportions. Many today are living in fear of their lives or mourning their loved ones. The actions being taken by governments to prevent our health systems from being overwhelmed are brave and necessary. They must be supported.  But those actions also come with a huge and unavoidable economic cost. While many face a loss of life, a great many more face a loss of livelihood. Day by day, the economic news is worsening. Companies face a loss of income across the whole economy. A great many are already downsizing and laying off workers. A deep recession is inevitable.  The challenge we face is how to act with sufficient strength and speed to prevent the recession from morphing into a prolonged depression, made deeper by a plethora of defaults leaving irreversible damage. It is already clear that the answer must involve a significant increase in public debt. The loss of income incurred by the private sector — and any debt raised to fill the gap — must eventually be absorbed, wholly or in part, on to government balance sheets. Much higher public debt levels will become a permanent feature of our economies and will be accompanied by private debt cancellation.  It is the proper role of the state to deploy its balance sheet to protect citizens and the economy against shocks that the private sector is not responsible for and cannot absorb. States have always done so in the face of national emergencies. Wars — the most relevant precedent — were financed by increases in public debt. During the first world war, in Italy and Germany between 6 and 15 per cent of war spending in real terms was financed from taxes. In Austria-Hungary, Russia and France, none of the continuing costs of the war were paid out of taxes. Everywhere, the tax base was eroded by war damage and conscription. Today, it is by the pandemic’s human distress and the shutdown.  The key question is not whether but how the state should put its balance sheet to good use. The priority must not only be providing basic income for those who lose their jobs. We must protect people from losing their jobs in the first place. If we do not, we will emerge from this crisis with permanently lower employment and capacity, as families and companies struggle to repair their balance sheets and rebuild net assets. Employment and unemployment subsidies and the postponement of taxes are important steps that have already been introduced by many governments. But protecting employment and productive capacity at a time of dramatic income loss requires immediate liquidity support. This is essential for all businesses to cover their operating expenses during the crisis, be they large corporations or even more so small and medium-sized enterprises and self-employed entrepreneurs. Several governments have already introduced welcome measures to channel liquidity to struggling businesses. But a more comprehensive approach is needed.  While different European countries have varying financial and industrial structures, the only effective way to reach immediately into every crack of the economy is to fully mobilise their entire financial systems: bond markets, mostly for large corporates, banking systems and in some countries even the postal system for everybody else. And it has to be done immediately, avoiding bureaucratic delays. Banks in particular extend across the entire economy and can create money instantly by allowing overdrafts or opening credit facilities.  Banks must rapidly lend funds at zero cost to companies prepared to save jobs. Since in this way they are becoming a vehicle for public policy, the capital they need to perform this task must be provided by the government in the form of state guarantees on all additional overdrafts or loans. Neither regulation nor collateral rules should stand in the way of creating all the space needed in bank balance sheets for this purpose. Furthermore, the cost of these guarantees should not be based on the credit risk of the company that receives them, but should be zero regardless of the cost of funding of the government that issues them.  Companies, however, will not draw on liquidity support simply because credit is cheap. In some cases, for example businesses with an order backlog, their losses may be recoverable and then they will repay debt. In other sectors, this will probably not be the case. Such companies may still be able to absorb this crisis for a short period of time and raise debt to keep their staff in work. But their accumulated losses risk impairing their ability to invest afterwards. And, were the virus outbreak and associated lockdowns to last, they could realistically remain in business only if the debt raised to keep people employed during that time were eventually cancelled.  Either governments compensate borrowers for their expenses, or those borrowers will fail and the guarantee will be made good by the government. If moral hazard can be contained, the former is better for the economy. The second route is likely to be less costly for the budget. Both cases will lead to governments absorbing a large share of the income loss caused by the shutdown, if jobs and capacity are to be protected.  Public debt levels will have increased. But the alternative — a permanent destruction of productive capacity and therefore of the fiscal base — would be much more damaging to the economy and eventually to government credit. We must also remember that given the present and probable future levels of interest rates, such an increase in government debt will not add to its servicing costs.  In some respects, Europe is well equipped to deal with this extraordinary shock. It has a granular financial structure able to channel funds to every part of the economy that needs it. It has a strong public sector able to co-ordinate a rapid policy response. Speed is absolutely essential for effectiveness. Faced with unforeseen circumstances, a change of mindset is as necessary in this crisis as it would be in times of war. The shock we are facing is not cyclical. The loss of income is not the fault of any of those who suffer from it. The cost of hesitation may be irreversible. The memory of the sufferings of Europeans in the 1920s is enough of a cautionary tale.  The speed of the deterioration of private balance sheets — caused by an economic shutdown that is both inevitable and desirable — must be met by equal speed in deploying government balance sheets, mobilising banks and, as Europeans, supporting each other in the pursuit of what is evidently a common cause.



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