L’anno appena passato è stato un continuo avvicendarsi di eventi e sconvolgimenti di grande momento e la dimensione elettorale ha offerto, per parte sua, un importante contributo a questo stato di cose. In molti e influenti Stati del mondo, le elezioni del grande “anno elettorale” hanno appassionato, stupito e, in qualche caso, preoccupato gli osservatori internazionali e le consultazioni per il rinnovo della Camera elettiva del Parlamento svoltesi, tra la scorsa primavera e l’estate, in India, “la più grande democrazia del mondo”, hanno senz’altro costituito uno degli appuntamenti di maggiore interesse, per più di una ragione.
Provare a descrivere gli eventi di una realtà così profondamente diversa da quelle alle quali siamo abituati, più di frequente, a riferirci è, di sicuro, un esercizio complicato, ma l’indicazione di qualche dato di contesto, unita a qualche puntualizzazione mirata, potrebbe consentirci di apprezzare con discreta precisione le peculiarità di questo appuntamento elettorale, per molti aspetti unico nel suo genere e, soprattutto, decisivo per la composizione degli interessi e degli equilibri sullo scacchiere internazionale.
Innanzitutto, l’India è, da qualche tempo, lo Stato più popolato al mondo, contando circa un miliardo e 429 milioni di abitanti. Di questi, gli aventi diritto al voto sono, oggi, “poco” meno di un miliardo (circa 970 milioni) e le elezioni appena svoltesi sono state le prime da Paese capolista della classifica degli Stati più popolati, ma, soprattutto, sono state anche le prime elezioni ad esprimere rappresentanti in tutto e per tutto elettivi.
Fino alla scorsa tornata elettorale, una quota – molto ridotta, in verità – dei seggi parlamentari della Camera del popolo (la Lok Sabha, la camera bassa) continuava, infatti, ad essere assegnata a rappresentanti di nomina presidenziale della minoranza anglo-indiana, in omaggio al passato coloniale. Il dato è, sì, simbolico, ma di non poco conto, perché ha finito per saldarsi, in modo curioso, ma suggestivo, con l’impeto identitario ed emancipatorio che ha caratterizzato queste elezioni, segnate, anche nel loro risultato, da pulsioni nazionaliste. Come è noto, il responso delle urne, sebbene meno netto e granitico di quanto stimato, ha, d’altronde, sancito la riconferma alla maggioranza dell’Alleanza Democratica Nazionale (NDA), guidata dal partito ultra-hindu Bharatiya Janata Party (BJP) del Primo ministro uscente Narendra Modi, che, insieme al suo nuovo Governo, proseguirà verosimilmente le politiche oltranziste mirate a colpire la minoranza musulmana del Paese, costituita da più di 200 milioni di persone.
Al netto di ciò, l’interesse di questo appuntamento risiede, però, anche in altri dati. Primo fra tutti la sua durata. Le elezioni, svoltesi per più di un mese (altro primato), sono state pianificate articolando l’immenso territorio indiano in sette diverse aree, denominate Fasce, in ciascuna delle quali si è votato in un giorno diverso di settimane diverse, occupando uno spazio temporale che è andato dalla terza settimana di aprile (la prima fascia ha votato il 19) alla prima di giugno (l’ultima ha votato l’1), mentre la distribuzione dei collegi all’interno delle partizioni non è stata omogenea, perché le prime quattro “fasce” hanno espresso collegi in numero quasi doppio rispetto alle altre.
Di qui una prima considerazione: il valore della contestualità del voto (e il correlato timore che, distribuendo la durata dell’elezione su più giorni, potessero determinarsi rischi e tentativi di adulterazione della consultazione a urne aperte), ha, qui, trovato un importante (e forse necessario) contemperamento al ribasso, a causa delle enormi difficoltà logistiche e organizzative proprie di un appuntamento elettorale capace di portare al voto quasi un decimo degli abitanti della Terra.
In aggiunta, altri sono, pure, gli elementi e i dati di interesse.
In primo luogo, lo scarto tra i vincitori e la coalizione di opposizione è stato minimo, attestandosi a poco meno di due punti e mezzo sulla percentuale complessiva dei voti espressi (44,75 vs. 42,32), ma, complice l’adozione di un sistema elettorale uninominale a turno unico su scala federale, è valso ben 59 seggi: un tesoretto niente affatto trascurabile su un totale di 573 posti a elezione.
In secondo luogo, la compressione alla rappresentatività impressa dal sistema elettorale ha generato altre risultanze per noi impensabili, perché ha, ad esempio, fatto sì, che YSR Congress Party, il terzo partito per numero totale di voti, si accaparrasse solo quattro seggi, staccando, peraltro, di poco (0,3 punti percentuali e 162mila voti) il quarto partito in ordine di piazzamento (il Bahujan Samaj Party – BSP), che, invece, di seggi non ne ha conseguito nemmeno uno.
In terzo luogo, complessivamente sono più di cinquanta milioni i voti esclusi dalla distribuzione dei seggi avvenuta tre le prime due coalizioni perché, salvo che per qualche collegio assegnato a partiti minori in ragione della propria e probabile rappresentatività locale, la tendenza impressa all’intero sistema si è mostrata fortemente (o estremamente) bipolare: un dato, questo, apparentemente fisiologico se si pensa alle dimensioni del Paese e al numero dei suoi elettori (cinquanta milioni di voti non rappresentati, nel “grande mare” del voto indiano, possono sembrare trascurabili); sufficientemente preoccupante se, invece, si pone mente al fatto che lo stesso esprime una grandezza che vale quasi un quinto delle percentuali delle due coalizioni di testa (ferme a 283 e 267) e che deve, peraltro, essere rapportata ad un numero di votanti e di voti validi da calcolarsi su quasi la metà degli aventi diritto (rispettivamente, 632 e 645 milioni di 968).
Di qui un’altra considerazione. L’analisi sommaria dei dati dell’elezione indiana sembrerebbe rivelarci che, tanto la formazione della maggioranza, quanto la realizzazione del bipolarismo, sembrino, in questo caso, più etero-indotti dai noti effetti distorsivi del maggioritario, che non dallo svolgimento della politica nazionale: un rilievo che fa, probabilmente, dell’India, la democrazia più grande al mondo, ma non, allo stesso tempo, la democrazia che, assente un criterio proporzionale di assegnazione dei seggi e assenti particolari correttivi al maggioritario, privilegia maggiormente il principio di rappresentanza nel suo stesso Parlamento (che non è tutto elettivo).
Interrogarsi su tutto questo può, senz’altro, avere la sua utilità, ma chiedersi se l’adozione di un sistema elettorale con queste caratteristiche arrechi, effettivamente, un buon servizio alla vita politica di un Paese sconfinato e se non sia, forse, meglio che l’India valorizzi, molto più che altre realtà, il grande pluralismo che le è immanente (anche attraverso la rappresentazione parlamentare) è un esercizio davvero complesso, specie oggi che afflati di questo tipo sembrerebbero doversi, in qualche misura, ridimensionare, complice la vittoria della coalizione che osteggia le minoranze.
Al netto di questi ragionamenti, anche la lezione indiana sembra, però, avere i suoi meriti, se non altro perché riecheggia molto bene un antico, ma apparentemente desueto, insegnamento: quello che rivela che la democrazia, forse anche proporzionalmente alla sua dimensione, è sempre una realizzazione tanto edificante, quanto faticosa. Anzi, forse è proprio per questo che gli sforzi profusi per realizzarla anche dove i numeri e gli spazi ne avrebbero potuto scoraggiare, come in India, il pieno funzionamento ci restituiscono un tenue sentore di buon auspicio in uno scenario globale che attenta, sempre di più, alla democrazia, ai diritti e alla pace.