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FOCUS - Osservatorio di Diritto sanitario

 Consiglio di Stato, Sentenza n. 362/2025, Sulla legittimità del diniego di affissione di manifesti contrari al farmaco abortivo RU486

              

Pres. F. Caringella, Est. G.L. Barreca – Associazione Pro Vita e Famiglia Onlus (Avv. S. Spinelli c. Comune di Rimini (Avv. E. Fabbri)

RU486 – Farmaco abortivo autorizzato - Campagna d’opinione contraria-Equiparazione del farmaco a veleno - Affissione dei manifesti in spazi pubblici  – Contenuto fuorviante e ingannevole -   Diniego del permesso – Legittimo.

Nella sentenza annotata il Consiglio di Stato torna ad affrontare il tema della legittimità del diniego di affissione di manifesti contrari al farmaco abortivo RU486.

L’Associazione Pro Vita e Famiglia Onlus adiva il Consiglio di Stato per la riforma della sentenza del T.a.r. Emilia-Romagna con cui era stato rigettato il ricorso per l’annullamento della deliberazione della Giunta del Comune di Rimini che aveva negato l’affissione di manifesti della campagna d’opinione contro l’RU486.

Nei manifesti era ritratta l’immagine di una donna stesa a terra, apparentemente priva di sensi o addormentata, con una mela rossa accanto, che rievocava la favola di Biancaneve, accompagnata dalla scritta: Prenderesti mai del veleno? Stop alla pillola abortiva RU486. Mette a rischio la salute e la vita della donna e uccide il figlio nel grembo. Gli stessi manifesti riproducevano, con caratteri più piccoli, la seguente frase: Campagna di sensibilizzazione promossa da Pro Vita & Famiglia Onlus per la tutela del diritto fondamentale alla vita (art. 2 Cost.) e del diritto alla salute (art. 32 Cost.) sui rischi della somministrazione della pillola RU486.

Nel rigettare il ricorso in primo grado, il T.a.r. aveva ritenuto che il contenuto dei manifesti fosse «oggettivamente non veritiero e suscettibile di condizionare in modo fuorviante e ingannevole (equiparandolo a un veleno) l’utilizzo di un farmaco regolarmente approvato».

Il Consiglio di Stato respingeva anzitutto le eccezioni di incompetenza, affermando che «non si è trattato, da parte della Giunta del Comune di Rimini, né dell’esercizio di poteri di indirizzo esclusivamente politico che spetterebbero tutt’al più al Consiglio comunale, né dell’esercizio di un’attività riservata ai dirigenti, nemmeno in ‘sostituzione’ di questi ultimi».

Rigettava, altresì, il secondo motivo di ricorso «(rubricato “Violazione dell’art. 21 Cost., violazione artt. 2, 3, 19 Cost., violazione artt. 9, 10 e 18 CEDU”)» che vedeva la ricorrente dolersi di una asserita «forma di censura preventiva» priva di legittimazione.

Secondo l’associazione: i manifesti si riferivano ai rischi per la salute e la vita della madre senza esplicitarne l’entità, «non solo sulla base della libertà d’opinione e dell’abbondante letteratura scientifica, ma anche in virtù del pluralismo che esiste in materia nello stesso mondo scientifico»; la campagna «non sarebbe dis-informativa dal punto di vista medico-scientifico, ma risponderebbe non solo ad un diritto ma anche ad un dovere di informazione nei confronti delle donne sulle potenziali conseguenze dei metodi abortivi»; sarebbe, inoltre, «“incontestabilmente vera” l’affermazione “uccide il figlio nel grembo”, in quanto corrispondente allo scopo e alla funzione della pillola abortiva ed in quanto la qualificazione di “figlio” rientrerebbe nell’ambito delle posizioni legittimamente sostenibili». L’associazione sosteneva che «il messaggio del manifesto, nella sua totalità, si limiterebbe ad esternare una posizione su un tema controverso, in parte sugli effetti collaterali della pillola e in parte (e soprattutto) sulla negatività della stessa finalità della RU486».

Nel respingere il ricorso il Consiglio di Stato ha ritenuto condivisibile quanto evidenziato dal T.a.r. circa la sicurezza del farmaco approvato dall’Agenzia Italiana del Farmaco – come confermato dal Ministero della Salute – ritenendolo perciò oggetto di una campagna idonea a «ingenerare in maniera ingiustificata allarme per la salute e la vita delle donne che ne fanno uso…». Il contenuto del messaggio, infatti, equiparava il farmaco ad un veleno.

I giudici di secondo grado hanno ritenuto condivisibile la conclusione del T.a.r. secondo cui la delibera impugnata è «dotata di chiara e congrua motivazione che in alcun modo risulta violare la libertà di manifestazione del pensiero tutelata dalla Carta Costituzionale e dalla giurisprudenza CEDU, limitandosi essa a non consentire l’affissione di manifesti il cui contenuto risultava oggettivamente non veritiero e suscettibile di condizionare in modo fuorviante e ingannevole (equiparandolo ad un veleno) l’utilizzo di un farmaco regolarmente approvato dalle competenti Autorità sanitarie»; d’altra parte «il Comune di Rimini ha regolarmente consentito l’affissione dei manifesti che l’Associazione Pro Vita ha successivamente commissionato, previa eliminazione del messaggio che equiparava il farmaco RU 486 ad un veleno».

Non è stato perciò messo in discussione che il giudizio valutativo negativo sull’aborto attenga «alla libertà di opinione e di libera manifestazione del pensiero»; tale giudizio può essere «legittimamente espresso dall’Associazione, ma non fino al punto di sovrapporre ingannevolmente la contestata finalità del farmaco alla sua distribuzione e utilizzazione debitamente autorizzate».

La stessa associazione si era fatta promotrice su tutto il territorio nazionale di una sistematica campagna contro il farmaco RU486 e la questione affrontata dalla pronuncia qui commentata era stata oggetto di analogo contenzioso nella vicenda della campagna d’opinione nel Comune di Roma Capitale. In quella occasione il Consiglio di Stato, richiamando la costante giurisprudenza della CEDU e della Corte costituzionale italiana, aveva già evidenziato come «la libertà di espressione non sia illimitata e assolutamente non controllata, ma, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposta dall’autorità pubblica anche a formalità, condizioni ovvero restrizioni, le quali, proprio in una società democratica, appaiono misure necessarie a proteggere l’interesse pubblico superiore e la reputazione ovvero i diritti altrui» (sez. VII, sent., 4 luglio 2024, n. 5930). Si è così evidenziato che «l'amministrazione ritiene potenzialmente pregiudizievole l’affissione su spazi pubblici di manifesti che, per i loro contenuti testuali e per le loro immagini, incidono sulla sensibilità di una parte consistente del pubblico e, segnatamente, delle donne». Si tratterebbe di una valutazione riservata dall'amministrazione, non sindacabile in sede di legittimità se non per palesi illogicità o difetti di istruttoria che, nel caso concreto, non emergono. Invece, l’assunto sostenuto, secondo cui sarebbe «oggettivamente vera» l’affermazione che la RU486 «mette a rischio la salute e la vita della donna», contrasterebbe decisamente con la regolare approvazione del farmaco da parte delle autorità competenti, il cui ambito di sindacato giurisdizionale è stato chiarito anche nel contenzioso sul farmaco "ElleOne" ad azione antiovulatoria – da non confondersi con il farmaco usato per l’interruzione volontaria della gravidanza (cfr. Cons. Stato, sez. III, sent., 19 aprile 2022, n. 2928).

Il contenzioso e la relativa sentenza qui commentata non pongono in rilievo una questione di consenso informato, avendo piuttosto ad oggetto la disinformazione su un farmaco regolarmente autorizzato, diffusa tramite manifesti idonei a ingenerare nella donna un ingiustificato «allarme per la salute e la vita».

Sarebbe in tal modo altresì violato – si aggiunge qui – il “rispetto della dignità e della libertà” nella scelta abortiva (art. 5, l. 22 maggio 1978, n. 194; art. 2, 3, 32 Cost.).

Con la pronuncia qui commentata i giudici amministrativi seguono l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la campagna d’opinione contraria all’uso dell’RU486, nella modalità richiamata – volta a ingenerare il timore di conseguenze dannose di un farmaco la cui sicurezza è stata regolarmente attestata – in modo da condizionarne l’uso, disincentivandolo, non trova alcuna copertura costituzionale; ribadiscono la legittimità del diniego di affissione dei manifesti da parte del Comune.

A.C.



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