Domenica 2 ottobre l’Ungheria è stata chiamata alle urne per esprimere il consenso o meno al quesito referendario voluto dal Primo Ministro Viktor Orbàn contro «l’imposizione unilaterale da parte dell’Unione europea» di una quota di rifugiati provenienti dall’Italia e dalla Grecia. Se indubbia era la maggioranza del No, ciò che rendeva incerta la validità del referendum era il raggiungimento del quorum del 50% degli aventi diritto di voto, come prescritto dal nuovo testo della Costituzione ungherese. E tale ipotesi si è verificata: sebbene il 98% dei votanti si sia espresso contro la politica delle quote, il quorum si è fermato al 43,91%, ed insieme ad esso la validità della votazione. Oggetto del quesito referendario è stato, dunque, il piano di ripartizione dei migranti, votato dal Consiglio europeo nel settembre dello scorso anno. Secondo tale decisione ciascun Paese membro dovrebbe accogliere una percentuale di «persone in evidente bisogno di protezione internazionale» – quindi già riconosciute – assegnata in proporzione alla popolazione, al PIL, al tasso di disoccupazione e alla percentuale di richiedenti accolti negli ultimi quattro anni. Finalità di tale programma di ricollocazione sarebbe quello di «alleviare la forte pressione sul sistema di asilo» italiano e greco, prodotto da un perdurante e pressoché ininterrotto afflusso di persone provenienti da territori in conflitto od economicamente depressi del Mediterraneo orientale e dell’Africa sub-sahariana. A fronte di tale meccanismo, l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere una quota pari a 1294 rifugiati (988 provenienti dalla Grecia e 306 dall’Italia, secondo le stime della Commissione Ue), su una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti. Cifra oggettivamente irrisoria, alla quale però il Primo Ministro si è agganciato per proseguire la politica di forza contro la direzione europea, ritenuta oltremodo invasiva della sovranità statale. Non a caso, in sede di approvazione del piano quote, hanno espresso voto contrario proprio Ungheria, Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia: Paesi che, insieme alla Polonia, costituiscono una “versione aggiornata” del cosiddetto gruppo di Visegrad. Quest’ultimo, infatti, se negli anni successivi alla dissoluzione URSS lavorò per favorire l’avvicinamento e l’integrazione del gruppo alla Comunità europea, oggi si premura di rivendicare la sovranità nazionale dinnanzi ad «una deriva eccessivamente federalista» dell’Unione, seguendo il solco del populismo fortemente euroscettico... (segue)
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