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NUMERO 1 - 14/01/2009

Spunti di riflessione a partire dall'attuale crisi israelo-palestinese

La sicurezza dello Stato d’Israele? La creazione di uno Stato palestinese? Una lettura della storia degli ultimi 60 anni non sembra indicare che la via finora perseguita sia servita a conseguire lo scopo. Né la via militare, né – tanto meno - il terrorismo hanno mai garantito una definitiva soluzione al problema israelo-palestinese. O quanto meno il prevalere dell’uno sull’altro, con il vincitore capace di veder realizzato il proprio unilaterale obiettivo. Israele continua al contrario a vivere nell’insicurezza e nella minaccia esterna, mentre i palestinesi, peraltro incapaci di superare le proprie divisioni, vedono sempre lontana la prospettiva di un proprio Stato. Lutti ed infinite sofferenze da entrambe le parti non sono affatto serviti a garantire ai due popoli di poter soddisfare le proprie legittime aspirazioni.
Una conclusione, questa, difficilmente contestabile, che dovrebbe indurre ad interrogarsi sulla bontà delle strategie finora perseguite. Su di esse è invece finora mancata – da entrambe le parti – una revisione critica. Con il risultato che ormai da decenni le parti in causa (e la comunità internazionale) procedono sempre con gli stessi schemi, senza che della crisi si intraveda purtroppo un reale positivo sbocco. E’ del resto sotto gli occhi di tutti come da più di sessantanni prevalga la logica della violenza che chiama nuova violenza, in una spirale senza fine, ma soprattutto senza reale prospettiva. 
La sensazione è che su entrambi i fronti vi siano forze interessate a mantenere forte la tensione. Circuiti di potere, interni ed esterni, che molto avrebbero da perdere da una definitiva soluzione del problema medio-orientale e che pertanto soffiano sul fuoco, interessati ai ricchi dividendi di una situazione di irrisolta conflittualità. Ciò vale per Israele, dove si intersecano fattori di diversa natura. In primis, lo schermo della minaccia esterna, che favorisce la coesione interna e cristallizza in nome della sicurezza i tradizionali assetti di potere, a beneficio degli elementi che, pionieri dello Stato ebraico, ne costituiscono in larga misura la classe dirigente. Una classe dirigente su cui però premono, pronte a subentrarvi, le elites dei nuovi immigrati provenienti, soprattutto a partire dal 1967, da Paesi a prevalente religione musulmana, nonché,   dopo gli anni di Gorbaciov e a fortiori nel post-1991, dall’ex-URSS. In secundis, il peso di segmenti di popolazione che, la miscela di ultra-nazionalismo ed una visione assoluta dellébraismo, rende meno pronti ad abbandonare la logica della contrapposizione per imboccare la via di una ricerca di condizioni di pacifica convivenza con il vicino palestinese.

(segue)



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