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FOCUS - America Latina N. 1 - 23/12/2019

 Spinte e controspinte in tema di interruzione della gravidanza e statuto dell'embrione

Tra le questioni c.d. eticamente sensibili, quella dell’interruzione volontaria della gravidanza ‒ e della inevitabilmente connessa animazione dell’embrione, che di essa non può che rappresentare il necessario prius logico-cronologico ‒ non solo non cessa di innescare (e prepotentemente alimentare) accesi contrasti tra gli studiosi delle varie discipline coinvolte così come, pure, nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo ma sembra trarre, se possibile, ancora maggiori linfa e vigore da taluni recenti trends che paiono caratterizzare non poche esperienze a livello intercontinentale. Così, per un verso, gli Stati che tradizionalmente vietano (o limitano fortemente) l’accesso all’IVG ‒ afflitti da un aumento esponenziale degli aborti clandestini (per i più poveri) ovvero di emigrazione, per così dire, abortiva (dei più ricchi) ‒ sembrano ultimamente attraversati da un fremito che spinge, o vorrebbe farlo, verso una graduale depenalizzazione di tale pratica; per un altro tuttavia, ed in maniera affatto speculare, quelli di opposta tradizione (pur connotati da una complessiva riduzione delle interruzioni di gravidanza emergente dalle statistiche ufficiali) appaiono parimenti travolti da un’onda di piena di segno radicalmente contrario (nel senso, cioè, di un progressivo restringimento nelle possibilità di accedere a tali interventi). Prendendo innanzitutto le mosse dal primo dei due gruppi di paesi retro citati ‒ a parte l’emblematico caso della circoscritta realtà di Malta in Europa ‒ anche per le dimensioni del fenomeno nei termini quantitativi di popolazioni coinvolte il pensiero non può che andare alla paradigmatica esperienza dell’America centro-meridionale dove appena un settimo circa delle nazioni interessate consentono l’IVG a fronte delle restanti dove quest’ultima risulta duramente sanzionata ovvero fortemente ristretta. Così, mentre alle prime è possibile ascrivere solo Cuba, Guyana ed Uruguay, tra le seconde Repubblica dominicana, Haiti, Nicaragua, Salvador, Honduras, Messico e Suriname avrebbero imposto un divieto assoluto a fronte di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador e Panama che hanno invece optato per una sorta di proibizione condizionata: con circa il novanta per cento della popolazione femminile dell’America latina tagliata di fatto fuori dall’aborto, la conseguenza non è solo quella che il tasso di accesso alle interruzioni di gravidanza sia precipitato al 14,3% al livello subcontinentale (rispetto alla media mondiale del 40,5%) ma, soprattutto, che le condizioni igienico-sanitarie degli aborti clandestini abbiano drammaticamente mietuto il 12% del totale dei decessi per parto. Non può perciò stupire più di tanto se ‒ drammaticamente segnati più di altri dalla piaga delle IVG in condizioni di clandestinità ‒ ancora di recente taluni dei paesi sudamericani più popolosi si siano caratterizzati per reiterate (e, non poche volte, persino accorate) proposte di flessibilizzazione di discipline assai restrittive in materia. A fronte di insopportabili costi in termini di vite umane e di risorse per le casse pubbliche, è ad esempio in Brasile che sono state senza successo avanzate iniziative volte a consentire l’aborto entro le dodici settimane di gravidanza (e, cioè, ben oltre i limitati casi attualmente consentiti di stupro, pericolo per la salute della gestante nonché anencefalia fetale). Non dissimilmente è accaduto in Argentina dove ‒ a fronte di una disciplina (risalente al 1921) parimenti restrittiva che ammette l’interruzione di gravidanza solo in caso di violenza sessuale, pericolo di vita della madre e gravissime malformazioni del feto ‒ il progetto di legge che avrebbe spianato la strada ad un servizio di IVG sicuro e gratuito entro la quattordicesima settimana è stato respinto (con trentotto voti contrari e trentuno favorevoli) nell’agosto del 2018 dal Senato (dopo che la Camera lo aveva approvato, tra le mille difficoltà di una vera e propria seduta-fiume, a giugno dello stesso anno). Com’era del resto facile immaginare, ciò non ha fatto che ulteriormente drammatizzare anche qui, come nel vicino Brasile, la già tragica condizione in termini di costi umani e finanziari e spingere ‒ decorso il previsto anno dal respingimento del precedente ‒ alla riproposizione da parte della Campaña Nacional por el Derecho al Aborto di un altro progetto (l’ottavo in materia e sottoscritto da oltre settanta parlamentari della più varia estrazione politica) dello scorso 28 maggio 2019, proprio in occasione della Giornata Internazionale di Azione per la Salute delle Donne. Pur avendo ben poche speranze di essere in effetti discussa ed approvata in concreto ‒ a motivo dello scarso interesse manifestato in tal senso dal Presidente e dallo stesso Congresso (rimasto invariato dallo scorso anno) ‒ tale proposta sarebbe comunque espressiva della volontà di tenere nondimeno desta l’attenzione in astratto sulla questione della libertà di autodeterminazione riproduttiva delle donne e di coagulare intorno ad essa il maggiore consenso politico ed istituzionale possibile. Senza andare nemmeno troppo lontano dalle esperienze sudamericane appena accennate tuttavia, a fronte di plurime e diffusive spinte nel senso dell’ampliamento del diritto all’aborto, sembra contestualmente assistersi ‒ come peraltro già si anticipava supra ‒ ad altrettanto vigorose e massive contro-spinte nell’opposto verso del restringimento del medesimo diritto: emblematico, in tal senso, proprio il caso dei vicini Stati Uniti dove ‒ soltanto nel 2019 ‒ ben sedici dei cinquanta Stati hanno variamente introdotto restrizioni nell’accesso all’interruzione di gravidanza… (segue)



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