
Ricorso per questione di legittimità costituzionale depositato in cancelleria il 5 marzo 2025 (della Regione Campania) n. 13 in (GU 1° Serie Speciale - Corte Costituzionale, n. 13 del 26-3-2025).
Con il ricorso in titolo la Regione Campania ha impugnato la legge 30 dicembre 2024, n. 207 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027), art. 1, commi 784, 786, 789, 790, 792, 793, 796 e 797, lettere a) e d), ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, per violazione degli articoli 3, 53, 81, 97, 117, 119 e 120 della Costituzione. In estrema sintesi, la Regione, che “è impegnata nel recupero di un consistente disavanzo di amministrazione” e “rientra tra gli enti che hanno avviato un percorso di risanamento articolato su più annualità” (II.1), ritiene illegittime costituzionalmente, per violazione delle richiamate norme, una serie di norme statali che impongono ulteriori obblighi finanziari alle Regioni, tra cui, ovviamente, anche quella ricorrente.
1) Profilo di cui all’art. 81 Cost.
Il ricorso non specifica il comma di riferimento dell’articolo in titolo, il che provoca incertezza interpretativa. Intendendosi il richiamo come riferito al suo terzo comma, il quale sancisce notoriamente il principio dell’obbligo di copertura finanziaria, il fatto di evocare, nel ricorso, detta norma non appare conferente per come esso è esposto, attenendo, la disposizione, ad una problematica – l’obbligo di copertura – il cui presupposto è rappresentato da un nuovo o maggiore onere che sia previsto in una legge senza l’indicazione dei corrispondenti mezzi di compensazione. Ebbene, tale presupposto non si verifica a proposito delle norme impugnate, le quali sottraggono risorse all’ente Regione e non impongono, dunque, un onere nuovo o maggiore a carico di tale ente senza contestualmente provvedere alla occorrente copertura finanziaria.
Il punto diventa allora se la sottrazione di risorse possa essere parificata o meno ad un nuovo o maggiore onere, in quanto coperta costituzionalmente dall’obbligatorietà del contributo della PA al risanamento finanziario di cui agli artt. 97, 117 e 119, primi commi. E, ancorché si tratti di due fattispecie aritmeticamente e contabilmente assimilabili, la conclusione - benché oggettivamente molto sofisticata - può essere di segno negativo (nel senso che sono due ipotesi diverse), perché fornire meno risorse per far concorrere al risanamento costituisce fattispecie diversa dall’imporre nuovi o maggiori obblighi onerosi con carattere obbligatorio - questo è il passaggio-chiave - senza contestuale compensazione. Il primo caso, infatti, trova la copertura costituzionale nelle citate norme che richiamano al risanamento delle pubbliche finanze, mentre il secondo appare in contrasto con l’obbligo costituzionale di copertura.
In realtà, l’unico indizio riguardante l’eventuale difetto di copertura (in assenza di riferimenti in merito) potrebbe essere rappresentato dalla lamentata “ridondanza” delle citate norme statali a connotazione extra-competenziale (punto II.2.2.) sull’esercizio delle funzioni regionali nelle materie di propria competenza a causa delle minori disponibilità finanziarie, derivanti dalla riduzione/compressione delle risorse originariamente (già) previste per la finanza regionale (commi 796 e 797 dell’art. 1 della citata legge n. 207 del 2024). Ma tale prospettazione – ove mai nel silenzio fosse quella effettiva - non risulta sufficientemente coltivata nel ricorso[1] e comunque non è chiarito se si riferisca a funzioni da svolgereobbligatoriamente ovvero che siano comprimibili entro le risorse date.
Né appare altresì conferente il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 274 del 2017 (II.2.2), la quale ha dichiarato, in sintesi, illegittima una norma regionale avente come finalità quella di sottrarre, sostanzialmente, risorse al risanamento. Del pari, non risulta nel ricorso, pur nel richiamo all’art. 81 Cost. (asseritamente violato), il riferimento alla norma costituzionale con quest’ultima teleologicamente collegata, ossia l’art. 97, primo comma, Cost., intesa a difendere il raggiungimento degli equilibri di finanza pubblica in coerenza con gli obblighi eurounitari (riferimento che comunque sarebbe stato anch’esso inconferente, per gli stessi motivi che valgono per quelli all’art. 81, Cost.). Infatti, i richiami all’art. 97 Cost. di cui al ricorso si riferiscono ad altri commi, come il secondo, attinente a materia non finanziaria, laddove si evoca a sostegno, invece, l’art. 119, Cost., anche in questo caso in modo non conferente, perché, insieme all’art. 117, primo comma, ed all’art. 97, primo comma, Cost., esso costituisce la “gabbia” entro cui trovano giustificazione le riduzioni di risorse in tutto il settore pubblico, al fine di cogliere gli obiettivi del Patto di stabilità e crescita, in versione sia anteriore che posteriore alla riforma da ultimo intervenuta il 30 aprile 2024, come già prima accennato.
Peraltro, merita un cenno un passaggio del ricorso, riferito all’esito della caduta del PIL regionale (II.2.2.). È appena il caso di ricordare al riguardo che gli obiettivi di finanza pubblica sono espressi in Costituzione in termini strutturali, ossia al netto degli effetti del ciclo economico, per cui gli andamenti di quest’ultimo non entrano nel calcolo degli obiettivi medesimi, valevoli ai fini degli obblighi finanziari eurounitari.
2) Art. 117 Cost.
Quanto all’asserita violazione dell’art. 117 Cost., in combinato disposto con l’art. 3 Cost., la Regione ricorrente ravvisa, nelle disposizioni statali censurate, l’illegittima introduzione sia di “limitazioni di spesa” che di “modalità di riorientamento della stessa” (punto II.2 del ricorso); talché, segnatamente il comma 790[2] dell’art. 1 della legge dello Stato n. 207 del 2024 prevederebbe una disciplina volta sì al “risparmio pubblico”, ma in modo non ragionevole per ingiustificata disparità di trattamento tra Regioni, nella parte in cui penalizzerebbe quelle in disavanzo, obbligate a destinare le risorse del fondo di cui al comma 798 del citato art. 1 al ripiano anticipato del disavanzo di amministrazione, inibendo la loro destinazione ad investimenti, come, invece, viene consentito a Regioni con risultato di amministrazione pari a zero o positivo. Analogo vizio inficerebbe in particolare il comma 793 del medesimo citato art. 1 della legge n. 207 nella parte in cui prescrive sanzioni a carico delle Regioni per mancato rispetto di quanto previsto nel comma 792, che impone agli enti di disporre i prescritti accantonamenti (comma 789) e di trasmettere alla banca dati delle amministrazioni pubbliche i dati di consuntivo o di preconsuntivo relativi all’esercizio precedente, al di fuori, peraltro, dei canoni della leale collaborazione. La doglianza è rivolta anche nei confronti dell’ultimo capoverso del citato comma 790 dell’art. 1 della legge n. 207, nella parte in cui esso esclude dal cd. trattamento deteriore lamentato le Regioni che espongano, quale disavanzo, il cd. debito autorizzato e non contratto (DANC).
Si tratta di una serie di prospettazioni che sembrano non connotate da linearità.
In primo luogo, va ricordato che la Corte costituzionale ha avuto occasione di rilevare che l’imposizione dei risparmi di spesa rientra nell’esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.[3]. Va altresì ricordato che disposizioni analoghe a quelle oggetto di censura da parte della Regione ricorrente hanno, di recente, superato il vaglio di legittimità costituzionale (Corte cost., sent. n. 195/2024). Quanto, inoltre, alla ritenuta lesione del principio di leale collaborazione, principio più volte rimarcato dalla Corte costituzionale quale essenziale modalità di bilanciamento di interessi tra Stato e autonomie territoriali (cfr., da ultimo, richiamata sent. n. 195/2024), essa risulta disciplinata dal comma 786 dell’art. 1 della citata legge n. 207[4], nella parte in cui, nella disposizione richiamata, il riparto del “contributo alla finanza pubblica” tra le Regioni viene stabilito “sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano”; tuttavia, al riguardo, va ricordata la recente sentenza n. 195 del 2024 (punto 11 del diritto), che ha avuto modo di rimarcare che è «solo attraverso una leale collaborazione orientata al bene comune che il modello pluralistico riconosciuto dalla Costituzione può dunque svilupparsi, “in una prospettiva generativa” (Corte cost. sent. n. 168/2021), verso la migliore tutela del diritto alla salute» (Corte cost., sent. n. 40/2022; in senso analogo, sent. n. 87/2024).
Per questa ragione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 557, della legge n. 213 del 2023, “nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sia adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano” (come si nota, dunque, “d’intesa” e non semplicemente “sentita” la Conferenza). Sotto questo stretto profilo, dunque, il ricorso non sembra del tutto privo di fondamento, a condizione comunque che per “intesa” ci si riferisca all’ammontare complessivo del contributo da parte del sottosettore e non alla relativa distribuzione.
Quanto poi al regime sanzionatorio, esso non sembra estraneo alla disciplina del coordinamento, costituendone un non irragionevole corollario posto a presidio dell’effettività della disciplina medesima. Più delicata sembra la questione riguardante l’ultimo capoverso del citato comma 790 (oggetto di rilievo di legittimità costituzionale da parte della Regione ricorrente), che esclude dal trattamento “deteriore” le Regioni con disavanzo da debito autorizzato e non contratto (DANC). In proposito, si osserva che il ricorso omette di rappresentare le sostanziali ragioni che condurrebbero a ritenere l’irragionevolezza di detta disciplina. Infatti - in tesi - i rilievi mossi potrebbero anche condurre a ritenere che anche le Regioni in disavanzo da DANC sarebbero essere assimilate a quelle in disavanzo e non viceversa.
Ma la questione posta presenta profili di particolare complessità (che non possono affrontati in modo esaustivo nella presente sintetica nota). L’istituto richiamato (il DANC) presenta caratteristiche del tutto “eccentriche”[5] (infatti, l’autorizzazione ad indebitarsi di per sé non si configura quale debito o quale posta passiva[6]); sicché, probabilmente, da parte del ricorrente, andava chiarito, quanto meno sotto l’aspetto contabile, il reale impatto, a seconda dei casi (mera previsione dell’autorizzazione a contrarre debito; reale assunzione, da parte della Regione, dell’impegno) di detto disavanzo sul risultato di amministrazione, per meglio comprendere le censure mosse nel ricorso in questione; profilo, anche questo, non sufficientemente esplicitato.
[1] Va ricordato che la Corte costituzionale ha ritenuto l’inammissibilità di questione di legittimità nel caso di “lamentata alterazione del rapporto tra complessivi bisogni regionali e mezzi per farvi fronte”, laddove, come sembra anche nella specie, la questione medesima viene prospettata «in modo solo assertivo» (v. Corte cost., sent. 46/2019, punto n. 2.3.1. del diritto).
[2] 790. Alla fine di ciascun esercizio, il fondo di cui al comma 789, per gli enti in situazione di disavanzo di amministrazione alla fine dell'esercizio precedente, costituisce un'economia che concorre al ripiano anticipato del disavanzo di amministrazione, in misura aggiuntiva rispetto a quanto previsto nel bilancio di previsione. Per gli enti con un risultato di amministrazione pari a zero o positivo alla fine dell'esercizio precedente, il fondo confluisce nella parte accantonata del risultato di amministrazione destinata al finanziamento di investimenti, anche indiretti, nell'esercizio successivo, prioritariamente rispetto alla formazione di nuovo debito. Ai fini del presente comma, le regioni e le province autonome considerano il disavanzo di amministrazione al netto della quota derivante da debito autorizzato e non contratto.
[3] V. Corte cost. n. 169/2017, punto 9, ultimo cpv, del diritto; ma anche, di recente, Corte cost., sent. n. 195/2024.
[4] 786. Le regioni a statuto ordinario assicurano un contributo alla finanza pubblica, aggiuntivo rispetto a quello previsto a legislazione vigente, pari a 280 milioni di euro per l'anno 2025, a 840 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2026 al 2028 e a 1.310 milioni di euro per l'anno 2029. Il riparto del concorso alla finanza pubblica di cui al primo periodo è effettuato, entro il 28 febbraio 2025, in sede di autocoordinamento tra le regioni, formalizzato con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. In assenza di accordo in sede di autocoordinamento, il riparto è effettuato, entro il 20 marzo 2025, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, in proporzione, con riferimento al perimetro non sanitario, agli impegni di spesa corrente al netto degli impegni per gli interessi, per i trasferimenti al bilancio dello Stato per concorso alla finanza pubblica e per le spese della missione 12, Diritti sociali, politiche sociali e famiglia, come risultanti dall'ultimo rendiconto approvato, anche soltanto da parte della Giunta di ciascuna Regione.
[5] Così, punto 4.2.1 del diritto della sent. Corte cost. n. 274/2017: “L’istituto dei “mutui autorizzati e non contratti” è una peculiarità originata da un’eccentrica prassi della gestione finanziaria delle Regioni, […] ”.
[6] Quanto alle principali disposzioni che regolano l’istituto, v.: art. 3, commi 4 e 15, d.lgs. n. 118 del 2011. Si veda, anche, anche: Allegato 4/2, punto 5.3.4-bis.
07/03/2025
01/08/2022
02/04/2021