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In un colloquio giornalistico da poco pubblicato, il Presidente della Repubblica si è augurato «che questo periodo serva come una pausa di riflessione per tutti. In vista di un autunno nel quale si apra davvero un confronto produttivo per le riforme e non soltanto per quelle». Parole sagge, in carattere con l’uomo e coerenti con la prestazione di unità e di moderazione che la Costituzione richiede - tanto più in tempi agitati - al Capo dello Stato. Che di quanto egli auspica si avverta un grande bisogno non è in effetti possibile dubitare. È invece prudente, alla luce dell’esperienza, sospendere il giudizio ed evitare troppo facili entusiasmi sul fatto che l’invito, benché così autorevole, sortisca realmente il risultato sperato.
Da troppi anni il dibattito sulla riforma della Carta Costituzionale e in genere delle istituzioni del Paese registra in realtà, a ben vedere, un accordo di merito più largo e bipartisan (sia tra politici di sponde diverse, sia tra tecnici spesso non idealmente vicini tra loro) di quanto un’attenzione superficiale e intermittente porti il largo pubblico a ritenere.
E da altrettanto tempo il diavolo della polemica politica contingente - che implica la messa in scena quotidiana di scontri ideologici corruschi, ricchi di ultimatum o quantomeno di tattici penultimatum - ci mette la coda, quando si tratta di concludere gli intrapresi percorsi riformatori recuperando la necessaria ricerca di uno spirito di compromesso alto (per chi scrive, quest’espressione non è una bestemmia impronunciabile) sulle ragioni condivise che imporrebbero invece un aggiornamento non miope, né appiattito sul presente, delle istituzioni repubblicane e della loro dinamica.
Viene da invidiare Nicolas Sarkozy e chissà se non sia proprio questo il sentimento dissimulato di Giorgio Napolitano.
In pochissimo tempo, infatti, il primo ha com’è noto insediato una commissione per ammodernare le istituzioni transalpine, composta anche di esperti stranieri e di personalità di orientamento ideale diverso dal suo.
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