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di Stefano Cristante
La voce, il mito della predestinazione e la classe creativa: appunti a margine della vittoria di Obama
Ora la bellissima voce di Barack Obama è quella del 44° presidente degli Stati Uniti d'America. Quella voce, che mi sembra la caratteristica fisica ed estetica dominante la sua comunicazione politica, ha guidato tutta la campagna, e si è imposta a tal punto da costituire un habitat unico per la prima credibile proposta di un afro-americano nella corsa alla Casa Bianca. La voce di Obama ha abitato la campagna. Giorno dopo giorno la sua eleganza sonora ha conquistato le news, si è affermata nelle dichiarazioni, ha egemonizzato i confronti televisivi. Forse più del fisico asciutto, più della giovane età, persino più del colore della pelle, la voce di Obama è stata il simbolo di una tenacia, di una perseveranza, di una serietà estrema e tranquilla che ha lavorato in profondità nel corpo elettorale americano e si è fatta strada anche presso opinioni pubbliche straniere, lontane dalla realtà americana.
Dico questo perché quando ho sentito per la prima volta la voce di Obama in un audiovisivo della rete ho pensato che un discorso di investitura pronunciato da quella voce sarebbe stato indimenticabile. La voce, la dimensione orale della comunicazione, è considerata dai sociologi della comunicazione il primo medium autocostruito dall'uomo, quando ancora la dimensione dello stato era ben lontana dall'essere ipotizzata e quando si viveva in comunità piuttosto ristrette. La voce è il mezzo per eccellenza del villaggio tribale: la riconversione della voce in medium attrattivo e carismatico nell'epoca del villaggio non più tribale ma globale rappresenta la necessità di riparlare al cuore della cittadinanza postmoderna e massmediatica, ovvero di parlare al cuore della comunità.
Obama, probabilmente il leader più “moderno” di questa fase storica, è partito dal medium più antico. Un medium corale fornito da una profondità di voce che aspetta solo di mettersi in moto per narrare una vicenda: non ha bisogno di battute al vetriolo, né di colpi bassi né di un particolare umorismo. E' piuttosto il pragmatismo che sviluppa con arte la profondità della voce: quella voce ha tenuto il corpo del leader in una posizione di normalità, gli ha consentito di indossare gli abiti delle sue caratteristiche innovative (afro-americano, giovane, fuori dai grandi giri di Washington) senza renderle accecanti. Come se un abbraccio comunitario si interponesse tra Obama e la sua comunicazione nel merito: un abbraccio consentito dalla sua voce di narratore tribale, leader che racconta una storia talmente convincente da diventare La Storia.
(segue)