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di Paolo Maddalena
I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi odierni
Molti scritti recenti dedicati ai beni comuni presentano questa categoria come una “scoperta nuova” della scienza giuridica e, proprio per questo, cioè proprio perché partono dal presente senza pensare che già nel passato si erano esercitati sull’argomento i giureconsulti romani, cadono in talune contraddizioni, come quella, a nostro avviso fondamentale, secondo la quale non è importante in questa materia il profilo dell’appartenenza, ma la “destinazione”, e cioè la “disciplina d’uso” del bene di cui si parla. Decidere dell’appartenenza, cioè stabilire se si tratta di beni in proprietà dei singoli ovvero in proprietà comune e collettiva di tutti, è invece importantissimo. Infatti, è evidente che non esiste nessun’altra possibilità di difendere un bene di uso comune, se non quella di considerarlo fuori commercio, siccome appartenente alla collettività e non nel patrimonio di alcuno, “nullius in bonis, sed universitatis”, come affermava Gaio (Gai Inst., 2, 11), poiché, se lo si considerasse una res nullius, nel significato moderno della parola, a parte la considerazione che, come in seguito vedremo, questa categoria autonoma delle res nullius fu una creazione postclassica, sarebbe immediatamente occupabile da chiunque e non avrebbe nessuna garanzia di difesa. Peggio ancora se il bene in uso comune è già in proprietà di qualcuno, anche se protetto da “vincoli”. Prima o poi, trattandosi di un bene in proprietà privata, e quindi in commercio, il proprietario privato riuscirà a perseguire il suo esclusivo interesse ecomico, modificando il bene stesso e sottraendolo in pratica all’uso comune. E’ quanto dobbiamo dolorosamente costatare oggi per i beni di rilevante interesse pubblico ambientale, paesaggistico, artistico e storico sottoposti ad un regime vincolistico, il quale certamente prevede delle conseguenze giuridiche in caso di inosservanza, ma non prevede, né invero lo potrebbe, un custode per ogni vincolo... (segue)
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