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NUMERO 21 - 12/11/2014

 Lo Stato regionale italiano nel XXI secolo, tra globalizzazione e crisi economica

Uno dei non pochi aspetti innovativi della Costituzione italiana del 1948 – che fa parte del ciclo costituzionale del Secondo dopoguerra, un’epoca nella quale il “mercato del diritto comparato” aveva molto meno da offrire di quella attuale – era costituito dalla previsione di una forma di Stato regionale, ovvero un assetto territoriale del potere politico  “intermedio” tra lo Stato federale e lo Stato unitario. Scopo di questo articolo è ripercorrere, sul piano giuridico, le vicende dello Stato regionale italiano, nella consapevolezza, peraltro, che per comprenderle pienamente occorrerebbe ampia dovizia di dati geografici ed economico-statistici, nonché di elementi culturali, sociologici e politologici, tutti profili che non sarà qui possibile trattare e che dovranno essere dati per noti. Il lavoro si suddivide in tre parti: farò prima alcune considerazioni sulle origini storiche e sull’evoluzione giuridica dello Stato regionale italiano dal 1948 al 2001 (parte I), per soffermarmi poi più specificamente sulla situazione successiva alla entrata in vigore, nel 2001, di una importante revisione costituzionale che ha riscritto in senso “quasi-federale” le norme costituzionali sulle autonomie territoriali (parte II). Seguiranno alcune considerazioni conclusive (parte III), che mi permetto di anticipare in sintesi. Negli anni più recenti due fattori hanno fatto venire in luce la strutturale debolezza del regionalismo italiano e impongono all’attenzione degli studiosi, dei politici, dell’opinione pubblica, la necessità di un suo ripensamento. La dissoluzione, a partire dal 1992, del sistema dei partiti che aveva guidato i primi decenni repubblicani e la difficoltà di affermazione di un nuovo assetto hanno determinato fenomeni di personalismo, corruzione, decadimento della rappresentanza politica, minando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Questo discorso vale per tutti i livelli di governo, ma quello regionale è forse il più colpito, per il suo scarso radicamento nella società e per la sproporzione tra apparati – burocratici e rappresentativi – e rendimento istituzionale, in riferimento alla quantità e qualità delle funzioni svolte. La crisi economica che colpisce l’Europa dal 2008, ma in modo molto più deciso dal 2011 – rendendo impossibile il ricorso a ulteriore incremento del debito pubblico e  diminuendo il gettito tributario – ha imposto rilevanti tagli alla spesa pubblica. Questi si sono concretati in molti casi nella imposizione da parte dello Stato di precisi vincoli agli enti autonomi, regioni comprese, determinando un complessivo riaccentramento di competenze. In sostanza, l’effettività dello Stato regionale italiano è oggi ancor più che in passato distante dal testo costituzionale scritto. Questo vero e proprio baratro che separa costituzione scritta e costituzione vivente impone un ripensamento. Semplificando molto, due sembrerebbero le principali, possibili linee di sviluppo: o un passo indietro, verso un regionalismo prevalentemente amministrativo, che comporterebbe una riduzione non solo delle competenze legislative, ma anche degli apparati e dei bilanci delle regioni; oppure un passo avanti, in direzione del federalismo, con la necessità di introdurre una seconda camera rappresentativa delle regioni e di attribuire alle regioni ulteriori competenze in materia di governo locale, affrontando così i principali nodi irrisolti del “quasi-federalismo all’italiana” introdotto nel 2001. Come si capisce, questa scelta non è isolata dal contesto istituzionale generale: essa implica, a monte, una decisione su almeno due temi strettamente legati allo Stato regionale, ovvero come risolvere il problema del cattivo funzionamento dell’amministrazione pubblica nel suo complesso (ivi compresa quella statale) e come cercare di ricostruire la democrazia rappresentativa in un contesto caratterizzato dal rigetto per la politica e da una crescente sfiducia dei cittadini... (segue)

 



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