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NUMERO 6 - 25/03/2015

 Sistema dei partiti e riforme istituzionali

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Che fine ha fatto nel dibattito istituzionale l'art. 49? Perché sembra oramai uno dei più obsoleti articoli della nostra Costituzione? E, di conseguenza, perché le analisi sul sistema dei partiti sono tutte di taglio politologico e sociologico, mentre i giuristi, e soprattutto i costituzionalisti, non riescono a dire quasi più nulla sul tema? Il sistema partitico italiano si è in realtà evoluto senza che la Costituzione abbia avuto su di esso alcuna capacità prescrittiva. Per quasi cinquant'anni, è stato stabile, compatto, concentrato e sufficientemente chiaro nelle sue origini, nel suo sviluppo, nelle direzioni che andava di volta in volta assumendo. Quel sistema si era formato alla fine della seconda guerra mondiale, già negli anni della fase finale del regime fascista; aveva invero avuto la propria origine nei partiti nati tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, quello popolare, quello socialista, quello comunista, tutti e tre dotati sia di un radicamento sommerso, mai disperso negli anni del fascismo, sia di sicuri collegamenti internazionali; e aveva poi trovato la propria definitiva legittimazione negli anni della Resistenza, del periodo transitorio e della Assemblea Costituente. Già alla fine degli anni '40, il sistema aveva infine assunto una sua quasi definitiva strutturazione, con un grande partito cattolico e interclassista saldamente al centro; a sinistra, i  due partiti di tradizione marxista, quello comunista, strettamente ancorato all'Unione sovietica, e quello socialista, che aveva quasi immediatamente perso - già nel 1947, con la scissione di Palazzo Barberini e poi definitivamente nelle elezioni del 1948 - la battaglia del primato da quella parte dello schieramento politico; nell'area del centro, tre partiti medio-piccoli (il partito liberale; il partito repubblicano; il partito socialdemocratico, nato dalla ricordata scissione di Palazzo Barberini). A destra, due partiti (il Movimento sociale italiano e il partito monarchico) collocati in modo contraddittorio rispetto alla legittimazione costituzionale, antifascista e repubblicana, ma talvolta utilizzati dalla Democrazia cristiana come "forno" al quale accedere in situazioni di difficoltà. Dall'altra parte, il ricorrente tentativo di partiti e partitini di scavalcare "a sinistra" il Pci veniva regolarmente soffocato. In mezzo, meteora che appariva e spariva, il partito radicale, erede e promotore di significative battaglie laiche e popolari. Sembravano tanti quei partiti, ma in verità non ne entravano in Parlamento mai più di otto-nove, le cui logiche di posizionamento erano in definiva estremamente chiare. Alleanze centriste (Dc, Pli, Pri, Psdi) nei primi quindici anni successivi alla entrata in vigore della Costituzione, con qualche "occhiolino" della Dc sul versante di quella destra pur collocata al di fuori dell'arco costituzionale; centro-sinistra (Dc, Psi, Psdi, Pri), per i successivi circa quindici anni; compromesso storico, intorno al berlingueriano accordo tra Dc e Pci per un breve lasso di tempo nella seconda metà degli anni '70; centrismo competitivo tra Dc e Psi, per l'ultimo periodo (anche stavolta, poco meno di quindici anni) fino al crollo del sistema dei partiti nella prima metà degli anni '90... (segue)



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