Analizzando, in un lavoro dedicato al fondamento costituzionale delle comunità territoriali, il percorso istituzionale delle Regioni speciali in Italia, avevo aderito all’idea che la loro parabola fosse caratterizzata da un lento, ma progressivo appannamento delle ragioni istitutive. Se oggi dobbiamo dar credito ai lavori della Commissione istituita dal Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti nel giugno 2013 e alle audizioni di diversi costituzionalisti da parte della Camera dei deputati sul progetto di revisione costituzionale del Titolo V della Costituzione, la valutazione critica sembra accentuata: come evidenzia la limitata attenzione manifestata, all’interno del dibattito sulle riforme istituzionali, nei confronti della “questione regionale” e dal laconico interesse per quanto riguarda la problematica delle regioni speciali. Le posizioni che emergano dal dibattito evidenziano atteggiamenti contrastanti, che oscillano tra il disinteresse, l’adesione a formule liquidatorie, equivoci concettuali. Il primo atteggiamento pare confermato dal numero assai esiguo di componenti che è intervenuto sul tema della posizione costituzionale delle Regioni speciali. Mentre altri esperti hanno laconicamente sintetizzato le proprie posizioni con affermazioni prevalentemente apodittiche: si è auspicato un ripensamento circa “la differenziazione tra Regioni ordinarie e Regioni ad autonomia speciale (a parte la tutela speciale per il Trentino Alto Adige), alla luce del fatto che sono probabilmente da ritenersi superate le stesse ragioni che portarono alla loro istituzione, ovvero fattori storici o identitari”, così come si è ritenuto pacifico che siano “venute meno alcune delle ragioni giustificanti la specialità di cui all’art. 116 Cost.”. Mentre la relazione finale della Commissione sintetizza il dibattito affermando che “ferma la distinzione tra autonomie ordinarie e speciali, si presenta tuttavia necessario favorire un processo di riduzione delle diversità ingiustificate” (lasciate peraltro innominate). Appaiono, da ultimo, assai categorici alcuni giudizi formulati nel corso delle audizioni presso la Camera dei deputati in merito al progetto di revisione costituzionale in itinere. Più approfonditi e articolati risultano altri interventi i quali, per contro, delineano prospettive diverse: uno auspica un processo istituzionale che vada “verso una specialità diffusa” tenuta insieme dal vincolo economico; l’altro manifesta l’inopportunità della normativa di cui all’art. 116 Cost., la quale prefigura “forme diffuse di autonomia speciale”. Alla base di entrambe le posizioni vi è una lettura congiunta del primo e del secondo comma dell’art.116 Cost. come parte di una forma di regionalismo differenziato che prefigura una sorta di “federalismo asimmetrico”. Tuttavia, tale interpretazione, per quanto autorevole, si fonda – a nostro avviso - su di un’identificazione tra due figure (asimmetria e specialità) non proprio coincidenti. E’ vero che entrambe sono accomunate dalla capacità di esprimere un regionalismo contrapposto alla regionalizzazione uniforme: nel primo caso le autonomie territoriali si distinguono per competenze, poteri, soluzioni organizzative, mentre nel secondo si presuppone un «modello» comune sulla base del quale il legislatore plasma omogeneamente l’organizzazione delle diverse comunità territoriali. Si tratta, inoltre, di due strategie istituzionali che perseguono in modo differente l’integrazione tra le varie comunità territoriali: nel regionalismo uniforme le specificità territoriali non vengono annullate, ma «neutralizzate » attraverso la progressiva convergenza verso ambiti comuni ambiti di competenza; nel regionalismo differenziato, invece, l’integrazione di un determinato territorio all’interno dell’ordinamento generale è perseguito attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle sue specificità. Tuttavia, la specialità e l’asimmetria si differenziano tra di loro poiché esprimono dei fenomeni istituzionali diversi. Le specialità regionali – almeno secondo l’esperienza europea – sono generalmente riconducibili a un complesso di fattori di natura culturale, giuridica e politica, che hanno una base nella storia, permangono nell’attualità e si ritiene che, a causa della loro vitalità, possano proiettarsi nel futuro. Come efficacemente affermato da un’autorevole dottrina le autonomie speciali si fondano su “elementi pregiuridici che hanno presieduto alla nascita dei primi embrioni di specialità”, su “radici antropologico-culturali degli enti ad autonomia speciale, i quali si fondano su solide identità collettive, di cui costituiscono la proiezione istituzionale”. Per contro, l’asimmetria rappresenta, a nostro avviso, la risultante dell’esercizio del potere dispositivo, insito nella nozione stessa di autonomia costituzionale, allorché presuppone margini di discrezionalità sia nell’individuare la comunità di riferimento, sia nel determinare i principi di organizzazione e le competenze esercitabili: rafforza l’idea di fondo che autonomia è sinonimo di differenziazione. Ovviamente, la dimensione quantitativa e qualitativa dell’asimmetria – come bene evidenzia l’esperienza spagnola - deve trovare una giustificazione in elementi storici, sociali, culturali, economici, riassuntivamente qualificati come “fatti differenziali”. Questo contributo si propone di prendere spunto dal diritto comparato per introdurre nel dibattito alcuni spunti di riflessione sull’origine e le prospettive del regionalismo speciale in Italia, nonché sui limiti del dibattito in atto… (segue)
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