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NUMERO 17 - 16/09/2015

 Sul potere della Commissione europea di ritirare una proposta legislativa e sui suoi riflessi sugli equilibri istituzionali nel diritto dell’Unione europea

Con sentenza del 14 aprile 2015, nella causa C-409/13, la Corte di giustizia, riunita in “grande sezione”, ha risolto un antico contrasto di tesi giuridiche (e politiche) tra il Consiglio dell’Unione europea e la Commissione europea, avente ad oggetto la questione se quest’ultima possa ritirare una proposta legislativa e, se sì, a quali condizioni e in quali casi. Il problema di sapere se il titolare del potere di iniziativa legislativa disponga anche di un omologo potere di ritiro assume nel diritto dell’Unione un’importanza particolare. È da rammentare, infatti, che la Commissione dispone, salvo poche eccezioni, del monopolio del potere di iniziativa, con la conseguenza che riconoscerle un potere di ritiro significa riconoscerle l’altro - e più importante - potere di bloccare il processo legislativo, impedendo l’adozione degli atti da parte del Consiglio e del Parlamento. Nel silenzio dei Trattati, la Commissione ha sempre sostenuto che tale potere sia un corollario del suo diritto di iniziativa – diritto scolpito oggi nell’art. 17, par. 1, prima frase, TUE – mentre il Consiglio ha a lungo contestato tale punto di vista. Le prime manifestazioni di tale conflitto di posizioni risalgono alla metà degli anni settanta, ma anche in momenti successivi il Consiglio ha contestato il ritiro di una proposta minacciato o, in rari casi, effettuato dalla Commissione. Diversa è stata, invece, la posizione del Parlamento europeo, dato che nell’accordo-quadro concluso il 20 ottobre 2010 con la Commissione sui loro rapporti reciproci, l’esercizio del potere di ritiro è espressamente riconosciuto e disciplinato. La linea assunta dal Parlamento non ha avuto, peraltro, l’effetto di ammorbidire quella del Consiglio, che in una dichiarazione, pubblicata in Gazzetta ufficiale, ha affermato che l’accordo-quadro non è ad esso opponibile, riservandosi il potere di adire la Corte di giustizia “impugnando qualsiasi atto o azione del Parlamento europeo o della Commissione adottati in applicazione delle disposizioni di detto accordo-quadro e tali da pregiudicare gli interessi del Consiglio o le prerogative ad esso conferite dai trattati”. Respingendo il ricorso del Consiglio, la Corte ha risolto il conflitto a favore della Commissione, in linea con un brano contenuto in una pronuncia del 1988, ma ha anche dato alcune indicazioni riguardo a requisiti di ordine sia procedurale che sostanziale che devono essere rispettati ai fini di un “legittimo” esercizio del potere di ritiro. La lettura della sentenza ha pertanto giustamente destato l’interesse della dottrina ed ha già aperto un primo dibattito riguardo alla questione di capire chi sia il vero vincitore della contesa. Secondo un primo orientamento la Corte di giustizia avrebbe sostanzialmente fatto proprie le tesi della Commissione ed avrebbe in sostanza rafforzato i suoi poteri all’interno del processo decisionale. Un altro orientamento insiste, invece, sul fatto che la Corte ha ricostruito una serie di vincoli all’esercizio di un potere che, senza l’intervento della Corte, avrebbe potuto essere rivendicato dalla Commissione come “libero”. A parere di chi scrive la prima posizione è quella più aderente alla realtà, anche se il ragionamento condotto dalla Corte per giustificare il rafforzamento del ruolo della Commissione nella procedura legislativa ordinaria è criticabile per la scarsa considerazione dei principi democratici. Si cercherà, inoltre, di sottolineare il ruolo che la Corte ha riservato a se stessa nell’equilibrio istituzionale. Tale ruolo si ricollega al particolare valore che la Corte assegna al principio di leale cooperazione ed agli accordi interistituzionali. Anche su tali aspetti saranno svolte pertanto alcune considerazioni... (segue)



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